Se il fratello dell’amministratore di un’azienda sottoposta a verifica trasborda in modo sospetto documenti contabili dall’abitazione del suddetto amministratore nella propria autovettura, i verificatori sono autorizzati ad acquisirli.

E’ quanto statuito dalla Corte di cassazione con la sentenza 10590 del 13 maggio.

Un accenno alla vicenda
Sullo sfondo della vicenda, un avviso di accertamento Iva per l’anno di imposta 1996 elevato a carico di un night club sulla scorta di un pvc della Guardia di finanza. Fondamentali per il recupero sono state le risultanze tratte dalla documentazione consegnata dal fratello dell’amministratore, colto in flagrante dai verificatori alle prime luci dell’alba durante il tentativo di portare in salvo nel proprio bagagliaio elementi compromettenti dalla casa di abitazione di questi, per la quale sussisteva idonea autorizzazione giudiziaria all’accesso.
La censura principale del ricorso in Cassazione del contribuente investe l’illegittimità dell’avviso dovuta ad asserite violazioni di ordine istruttorio per la mancanza di uno specifico provvedimento giudiziario che autorizzasse la perquisizione dell’autovettura del terzo.

La Corte di cassazione disattende il motivo sia per la mancata proposizione di tale eccezione in primo grado sia per la mancata autosufficienza del motivo dovuta all’assenza di trascrizione delle parti salienti dell’atto impositivo (del quale è negata dal contribuente la correttezza motivazionale e procedimentale), nonché degli altri atti presupposti e degli atti processuali, e trova l’occasione per soffermarsi sulla tematica legata all’autorizzazione all’accesso e al consenso e mancata opposizione.

Autorizzazione e consenso tra pronunce e buon senso
Il fatto controverso rispetto al quale la motivazione della sentenza della Ctr sarebbe stata omessa e/o comunque contraddittoria è per il contribuente rappresentato dalla “… mancata opposizione della persona terza”che, secondo la parte contribuente,“non equivale a consenso all’accesso operato al di fuori delle previsioni legislative”;peraltro, a suo dire, il consenso sarebbe“privo di rilievo giuridico non essendo richiesto o preso in considerazione da nessuna norma di legge…”.
E’ indubbio che le contestazioni della parte sono focalizzate sulla mancanza del consenso all’accesso e sulla irrilevanza del consenso stesso.
Semplificando, gli interrogativi suggeriti dalla vicenda, in fieri potenzialmente idonei a dare una soluzione autonoma alla vicenda, possono essere così riassunti:
l’autorizzazione all’accesso all’abitazione dell’amministratore copre anche le indagini esperibili presso un’autovettura di un terzo, nella specie quella del fratello?
il consenso di un terzo, legittima la mancanza di un’autorizzazione specifica?

Per meglio comprendere gli interrogativi, occorre fare un passo indietro.
Come risaputo, nel caso di accessi in luoghi di privata dimora, il nostro ordinamento prescrive la massima garanzia: essi vanno effettuati esclusivamente in presenza di autorizzazione del procuratore della Repubblica, che può essere concessa soltanto in presenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie e allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture e altre prove delle violazioni. Tolte le considerazioni che si potrebbero spendere sulla necessità o meno della forma scritta di tale autorizzazione e sull’adeguatezza della motivazione che dovrebbe accompagnarla, il caso in questione potrebbe presentare il profilo della dimensione qualitativa dell’autorizzazione. In altre parole, ci si domanda, una volta ottenuta l’autorizzazione all’accesso, quali sono i poteri del soggetto preposto al controllo, Guardia di finanza o Agenzia delle Entrate.

Si pensi ad esempio all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili per i quali si ritiene sempre necessaria, ovunque si svolga il controllo (in luoghi professionali, promiscui o di privata dimora), l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria.
Nessun dubbio qualora l’amministrazione effettui un accesso in un luogo di esercizio dell’attività e si verifichi l’esigenza di aprire, ad esempi, cassetti chiusi a chiave della scrivania: a tal fine, è d’obbligo l’autorizzazione specifica dell’autorità giudiziaria. Al contrario, è plausibile attendersi che, se l’amministrazione fosse autorizzata a effettuare un controllo all’interno di un luogo di privata dimora, tale autorizzazione potrebbe essere valida anche per l’apertura degli oggetti in esso presenti.
Seguendo una diversa strada, la vicenda in commento potrebbe essere risolta a monte aderendo all’indirizzo giurisprudenziale che ritiene necessaria l’autorizzazione solo per l’apertura “coattiva” e non per l’apertura che avvenga con il consenso, ritenendo, in quest’ultimo caso, sufficiente il permesso dei familiari del contribuente (Cassazione 9565/2007).

La Corte di cassazione, nel caso di specie, anche se non lo dice esplicitamente, sceglie di non addentrarsi nella tematica della dimensione dell’autorizzazione e di esplorare, invece, i contorni del consenso, o quanto meno dell’arrendevolezza.
Richiama, quindi, due pronunce di legittimità, emesse in materia di assenza di autorizzazione del procuratore della Repubblica: la sentenza 2804/2011, in cui la sezione tributaria ha dichiarato legittimo l’avviso di accertamento fondato su “brogliacci” rinvenuti nell’autovettura del contribuente, poiché la documentazione si trovava all’interno di automezzo utilizzato per l’esercizio dell’attività, e la sentenza 10489/2003, che ha ritenuto legittima la rettifica della dichiarazione della società fondata su documentazione extracontabile trovata all’interno dell’auto dell’amministratore, in quanto l’autovettura stessa non era in quel momento adibita a uso meramente personale o al trasporto per conto terzi, ma era da ritenersi, invece, un bene “appartenente” all’impresa.
La Corte suprema, dunque, concentra la propria attenzione sulla rilevanza che un veicolo di fatto e in quel particolare momento sia riferibile all’impresa e/o al suo amministratore.

Con un raffinato ragionamento, la Cassazione equipara la vettura, e in particolare la sua struttura di abitacolo funzionalmente idoneo a custodire oggetti, alla struttura di qualsiasi altro luogo chiuso idoneo a ricevere e occultare cose, comunque, attinenti all’impresa stessa.
Effettuato il collegamento vettura del fratello/contenitore di documenti dell’attività/luogo riferibile all’attività, la Corte sembra prescindere da eventuali indagini sulla pertinenza dell’autoveicolo con il luogo di privata dimora, per risolvere la questione nei termini seguenti: posto la non opposizione del proprietario del veicolo, non si è dovuto procedere a nessuna apertura “coattiva”(di plichi sigillati, borse e simili) e, pertanto, non è stata necessaria “una ulteriore e specifica autorizzazione”.


Fonte: Agenzia Entrate

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