In presenza di condono tombale, l'Amministrazione finanziaria può accertare l'inesistenza del diritto alla detrazione dell'Iva, fondato su fatture passive di operazioni inesistenti e, inoltre, disconoscere il rimborso richiesto.
E' quanto chiarito dalla Corte di cassazione con l'ordinanza n. 18942 del 31 agosto 2010.

Il fatto
La vicenda riguarda la compensazione della cosiddetta Iva di gruppo tra società controllanti e controllate (articolo 73, comma 3, del Dpr 633/1972, successivamente integrato dal Dm 13 dicembre 1979), dove la controllante aveva compensato nella dichiarazione Iva per l'anno 2000 con l'imposta a debito il credito maturato dalla società controllata, derivandone così in esposizione un'eccedenza a credito.

L'importo compensato veniva, però, contestato dal competente ente impositore, avendo rilevato in sede di controllo formale che il credito maturato presso la società controllata derivava, in realtà, da fatture passive relative a operazioni inesistenti.

L'avviso di accertamento veniva impugnato dalla società, la quale deduceva, oltre la spettanza del credito esposto, l'inammissibilità dell'azione accertatrice dell'Ufficio per effetto dell'intervenuta definizione del rapporto per effetto del "condono tombale" (articolo 9 della legge 289/2002).

La Ctp respinge il ricorso, la cui decisione trova, però, riforma nella Ctr, la quale motiva il giudizio assunto sposando appieno la tesi del contribuente. A tal fine, premesso che il credito de quo non era stato richiesto a rimborso, bensì utilizzato in compensazione, assume l'impossibilità per l'ufficio di rettificare la dichiarazione in quanto oggetto di definizione ai sensi della legge 289/2002. Il giudice dell'appello ritiene quindi legittima l'operazione, ricordando, a supporto, che la Corte costituzionale (ordinanza 340/2005) aveva stabilito al riguardo che il vaglio dell'Amministrazione finanziaria sui crediti Iva in presenza di condono deve intendersi limitato alle sole ipotesi di richiesta di rimborso e che, di conseguenza, nel caso in esame - trattandosi di compensazione - sussiste la preclusione di ogni accertamento tributario nei confronti di chi ha prodotto la dichiarazione integrativa e dei soggetti coobbligati, "senza alcuna modifica dell'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle diverse imposte".

Contro il giudizio del riesame ricorre in Cassazione l'Amministrazione finanziaria in forza di un unico motivo, deducendo violazione di legge e chiedendo conseguentemente alla Corte suprema di pronunciarsi sull'interrogativo se per i periodi d'imposta coperti dal "condono tombale":

•sia consentito all'Amministrazione finanziaria accertare l'inesistenza del diritto alla detrazione dell'Iva, fondato su fatture passive relative a operazioni inesistenti e, per l'effetto, disconoscere il diritto al rimborso eventualmente richiesto
•ovvero negare il diritto al riporto dell'eccedenza di credito nell'esercizio successivo
•ovvero, ancora, riprendere a tassazione l'imposta non versata per effetto della detrazione, senza che rilevi che l'eccedenza sia maturata presso soggetto diverso dal contribuente, portata in detrazione per effetto del regime dell'Iva di gruppo.

Motivi della decisione
La Corte di legittimità ribadisce, in accoglimento del ricorso, il principio di diritto già espresso nel recente passato (sentenza 375/2009) secondo cui, in tema di condono fiscale, la previsione dell'articolo 9, comma 9, legge 289/2002, in base al quale la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, se comporta che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica, non sottrae comunque all'ufficio il potere di contestare il credito.

Da tali presupposti argomentativi, secondo il Collegio giudicante, discende la conseguenza che l'importo di rimborsi e crediti inseriti nelle dichiarazioni Iva, benché non ulteriormente modificabile e/o emendabile, permane comunque soggetto alla facoltà di contestazione da parte dell'Amministrazione finanziaria, particolarmente quando l'importo richiesto a rimborso si ritenga mai versato in quanto riferito a operazioni inesistenti.
Peraltro, anche l'Agenzia delle Entrate, con la circolare 22/2003, ha chiarito che la disposizione di cui trattasi non trova applicazione in relazione all'utilizzo di crediti di imposta commisurati a presupposti che non hanno alcuna relazione con la base imponibile. Tali crediti di imposta hanno, infatti, funzioni incentivanti che si connettono al fenomeno tributario solo al momento del loro utilizzo in diminuzione delle imposte dovute.

L'accertamento dell'esistenza dei presupposti che ne legittimano la fruizione prescinde, pertanto, da ogni relazione con la base imponibile dichiarata o accertabile nei confronti dei contribuenti e, quindi, anche dall'eventuale definizione della stessa in base alle disposizioni contenute nell'articolo 9. Conseguentemente, anche in presenza di definizione automatica, l'Amministrazione finanziaria potrà continuare a verificare se sussistevano i presupposti per la fruizione dei crediti di imposta evidenziati nell'originaria dichiarazione.

In conclusione, deve ritenersi non ostativa per il pieno esercizio della potestà di accertamento da parte degli enti impositori, l'eventuale presentazione della definizione automatica per i periodi di imposta interessati, come si è ripetutamente imposta la giurisprudenza della Corte di cassazione (ex plurimis, sentenze 3682/2007, 14828/2008, 5586/2010).

L'interpretazione della Corte costituzionale
Si aggiunge per completezza che, nel caso in cui un contribuente avesse esposto un risultato fraudolento in dichiarazione e, successivamente, prima dell'esercizio dell'azione penale nei propri confronti, avesse provveduto a perfezionare la predetta sanatoria, avrebbe potuto ritenere sia di aver conseguito l'effetto preclusivo dell'accertamento tributario ed estintivo della responsabilità penale per i reati eventualmente commessi, sia di poter vantare in maniera legittima il credito emergente dalla condotta fraudolenta.
Tale considerazione è invece contraddetta dall'ordinanza interpretativa di rigetto n. 340/2005 della Corte costituzionale, dalla quale emerge invece una concezione del condono come procedura finalizzata ad acquisire allo Stato solo ulteriori entrate tributarie e con tale impostazione viene evitata la pretesa consolidazione di crediti di imposta derivanti da una condotta fraudolenta, nella misura in cui tale effetto è completamente estraneo alla ratio della disciplina delle sanatorie. Lo scopo fondamentale delle stesse è, infatti, solo l'emersione di reddito imponibile non dichiarato e l'incentivazione di pagamenti non ancora effettuati.
E se, più in generale, il condono non vale mai a consolidare i crediti Iva, invocare l'assenza di norme specifiche per sostenere la legittimità di crediti per operazioni inesistenti, è ignorare, ad avviso della Corte, che il diniego al riconoscimento degli stessi è un qualcosa che è già compreso nella natura e nella disciplina stessa delle sanatorie. In questo senso, il condono si afferma quale strumento con il quale il contribuente sana il pregresso a fini di rientro nella legalità e non già quale mezzo per consolidare e stabilizzare benefici derivanti da un comportamento fraudolento sanato (peraltro, in ordine alla "fatturazione di operazioni inesistenti", va ribadito l'insegnamento della Corte di cassazione, sentenza 7289/2001, secondo cui "l'emissione di fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta sanzionata penalmente come delitto").

In ultima analisi, secondo la Consulta, la disposizione deve essere interpretata nel senso che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica; non nel senso che questa sottragga all'ufficio il potere di contestare il credito, ad esempio per accertata inesistenza dell'operazione commerciale da cui esso deriverebbe.
In ultima analisi, il principio interpretativo affermato dalla Corte costituzionale (ordinanza 340/2005) dell'autonomia della definizione del rapporto d'imposta rispetto alla questione relativa al riconoscimento del rimborso, esclude radicalmente un effetto di consolidamento derivante dal condono.


Fonte: Agenzia Entrate

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