Sono due, distinti e opposti, i modelli cui gli Stati possono astrattamente informare il proprio sistema impositivo: il principio della fonte (source-based taxation principle) e il principio della residenza o domicilio fiscale del soggetto su cui grava l'imposta (worldwide income principle).

L'ordinamento che accoglie il principio della fonte colpisce i redditi o i beni posseduti da residenti o non residenti, solo se prodotti o esistenti all'interno del Territorio sul quale esso spiega la propria efficacia giuridica.
Invero, se si assume il principio di residenza, ferma restando per i non residenti l'imposizione dei soli redditi o beni posseduti entro i confini nazionali, si assoggetteranno a tassazione i residenti con riferimento al reddito mondiale(1) o ai beni ovunque esistenti.

La tassazione secondo il principio della fonte è attuata principalmente dai Paesi importatori di capitali, al fine di incentivare l'ingresso di investitori stranieri(2); motivi opposti inducono i Paesi esportatori di capitali a privilegiare, invece, il rapporto tra soggetto e Territorio, valorizzando forme di imposizione a carattere personale, tendenti a colpire la capacità globale dell'individuo ovunque si manifesti.

Il sistema di tassazione su base mondiale è da tempo osteggiato dai Paesi in via di sviluppo, i quali, applicando per lo più il principio della fonte, lamentano, a buon diritto, come la concessione al non residente di agevolazioni tributarie si risolva normalmente in un beneficio per il proprio Stato di residenza.
Sotto altro profilo, si è osservato che a differenza dei cittadini, naturali destinatari dei precetti tributari in virtù dei vincoli economici e politici che li legano allo Stato di origine, gli stranieri possono essere destinatari di un precetto di carattere tributario solo ove esista una forma di collegamento di ordine sociale, come ad esempio la residenza, o di ordine economico, quale l'esercizio di attività o il possesso di beni patrimoniali.

La nostra Costituzione, infatti, nel cristallizzare con l'articolo 53 che "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva", estende la giurisdizione statuale in materia tributaria anche nei confronti di quanti, pur privi della cittadinanza italiana, si pongono in un rapporto di connessione con il suo Territorio divenendo fruitori dei pubblici servizi ai quali dovranno contribuire.
Ne deriva, quale corollario del ricordato principio costituzionale, che il nostro ordinamento non può indirizzare la propria potestà impositiva verso soggetti non residenti in relazione a redditi o beni esteri.

La residenza in generale
L'ordinamento italiano(3) contempla una differente modalità di determinazione dell'obbligazione tributaria in ragione del fatto che, alla luce dei criteri di collegamento di ordine spaziale enunciati nell'articolo 2 del Tuir, il soggetto possa qualificarsi o meno residente nel territorio dello Stato.
In particolare, per i soggetti non residenti l'imposta grava sui redditi prodotti nel territorio dello Stato, mentre i soggetti residenti sono tenuti ad assolverla su tutti i redditi ovunque posseduti.
Il citato Tuir, all'articolo 2, comma 2, definisce residenti le persone "che per la maggior parte del periodo d'imposta, sono iscritti nell'anagrafe della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile"(4).

Dal tenore letterale della norma in questione si deduce che, affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente, è sufficiente che egli integri anche una soltanto delle condizioni richieste.
E' quindi assoggettabile a Irpef l'individuo che nel territorio dello Stato abbia la sola residenza o il solo domicilio o risulti soltanto iscritto nelle anagrafi della popolazione residente.

Tali requisiti, tenuto conto che il successivo articolo 7 stabilisce che il periodo d'imposta è di durata pari all'anno solare, devono sussistere, in via alternativa, anche se non ininterrottamente, per un periodo di tempo minimo di 183 (o 184 in anni bisestili) giorni(5).
In proposito, la relazione ministeriale illustrativa del nuovo articolo 2 spiega che la sua parziale riformulazione è stata resa necessaria allo scopo di meglio assolvere la funzione che consiste nell'accertare "ai fini dell'obbligo della dichiarazione e dell'esercizio del potere di accertamento, il presupposto dell'obbligazione tributaria di periodo ed è perciò necessario precisare per quanta parte del periodo deve sussistere la condizione richiesta: non soltanto la dimora ma anche la residenza anagrafica e il domicilio".
Ciò distingue e caratterizza l'attuale sistema di tassazione dal precedente articolo 2, comma 2, Dpr 29 settembre 1973, n. 597, a mente del quale assumevano la qualifica di residenti "oltre alle persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente, coloro che hanno nel territorio dello Stato la sede principale dei loro affari e interessi o vi dimorano per più di 6 mesi all'anno(…)".

Entrato in vigore il Tuir, il principio normativo fondamentale in tema di residenza delle persone fisiche è ancora dettato, come già accennato, dall'articolo 2, la cui disciplina è stata di recente integrata con l'aggiunta del comma 2-bis, disposta dall'articolo 10 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, in forza del quale si considerano fiscalmente residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani non più iscritti nell'anagrafe della popolazione residente ed emigrati in Stati o Territori aventi regime fiscale privilegiato, individuati con apposito decreto del ministero delle Finanze.

NOTE:
1) Fanno eccezione ai canoni appena ricordati quei sistemi (Stati Uniti, Filippine e Messico) che applicano il worldwide principle avendo riguardo al diverso presupposto della nazionalità del contribuente, talché il cittadino come tale, anche se non residente, è pur sempre ritenuto a contribuire su base mondiale.

2) Tali Paesi, inoltre, avendo una scarsa protezione verso i mercati internazionali nutrono storicamente un moderato interesse verso un sistema d'imposizione worldwide poiché dalla sua adozione deriverebbe un modesto incremento di gettito a fronte di una maggiore complessità sul piano legislativo e di un più elevato costo complessivo di attuazione del tributo.

3) Per quanto riguarda la residenza delle persone fisiche nel diritto tributario comparato, il legislatore inglese ha creato un regime di tassazione agevolato per i soggetti "residenti non domiciliati" nel Regno Unito (tassazione solo del reddito prodotto nel Regno Unito e del reddito prodotto all'estero ma goduto nello stesso Regno). Nel diritto tributario francese, le persone fisiche che hanno in Francia la residenza (domicile fiscal) sono assoggettate a imposta sui redditi ovunque prodotti nel mondo, laddove le persone fisiche che hanno il domicile fiscal al di fuori del territorio francese sono assoggettate a imposizione limitatamente ai redditi prodotti in Francia. Infine, il diritto tributario statunitense tassa i redditi ovunque prodotti nel mondo da parte a) dei cittadini americani, indipendentemente ove essi siano residenti; b) degli stranieri che siano residenti nel territorio statunitense; c) degli stranieri non residenti.

4) Rileva M. Maccarone, Teoria e tecnica delle imposte sui redditi, I, Milano, 1978, pagina 29, il riferimento operato al centro principale degli affari e interessi mira, "non solo a rendere possibile l'acquisizione ad imposta di tutti quei redditi che, pur essendo prodotti nel territorio dello Stato, sarebbe difficile, per loro natura, localizzare in modo preciso, ma anche e soprattutto a consolidare il criterio dei reddito goduti nel territorio dello Stato". L'articolo 2 del Tuir non contiene più la previsione di residenza per i cittadini emigrati per ragioni di servizio in quanto ritenuta superflua.

5) Tale è l'opinione prevalente in dottrina.


Come accennato nel precedente intervento, ai fini dell'assunzione della qualità di residente deve manifestarsi, nell'arco temporale minimo richiesto, almeno una delle seguenti condizioni:


- iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente(1)
- titolarità del domicilio, ossia, ai sensi dell'articolo 43, comma 1, del Codice civile, della sede principale dei propri affari o interessi nel territorio dello Stato
- residenza, da intendersi, secondo la definizione datane dall'articolo 43, comma 2, del Codice civile, come luogo di dimora abituale della persona entro i confini nazionali.
Il legislatore fiscale ha inteso rendere i concetti di residenza e domicilio, di origine civilistica, l'espressione di due fenomeni affini ma distinti, quanto meno nel senso che essi potranno coincidere ma anche che l'uno potrà esistere in capo alla persona indipendentemente dall'altro.

I concetti di domicilio e residenza sono previsti anche in possibile alternativa fra loro.

Eloquente in proposito è la congiunzione "il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile" di cui alla richiamata norma, evidente espressione dell'intento di ricomprendere nell'ambito della soggettività fiscale passiva sia chi è residente ma anche chi, in un luogo determinato, può dirsi abbia il semplice domicilio.

Tale ultimo concetto, si vedrà, si mostra caratterizzato da una oggettività e un'ampiezza di contenuti sicuramente più adeguata a meglio comprendere il caso di specie.

La dottrina, approfondendo la portata dei singoli criteri di collegamento, ha anzitutto affermato, con riferimento al primo di essi, il carattere oggettivo e formalistico dell'iscrizione, reputata condizione di per sé sola sufficiente a far acquisire la residenza agli effetti tributari.
La tesi, pur non unanimemente condivisa dalla giurisprudenza di merito, ha ricevuto di recente un'autorevole conferma dalla Corte di cassazione.
La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che l'iscrizione costituisce "un dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini dell'individuazione del soggetto passivo d'imposta, diversamente da quanto avviene ai fini civilistici ove le risultanze anagrafiche sono invece concordemente considerate idonee unicamente a dar luogo a presunzioni relative superabili, come tali, da prova contraria".

E' certamente prevalsa, sul piano interpretativo, l'idea che l'iscrizione anagrafica sia stata concepita dal legislatore soprattutto come strumento destinato a consentire un'agevole e sollecita individuazione della persona residente.
D'altra parte, una diversa prospettiva avrebbe portato ad attribuire rilevanza sostanziale alla dimora, se si pone mente al fatto che le persone anagraficamente residenti nel Comune sono quelle titolari, appunto, della propria dimora abituale nell'ambito del suo territorio e, in definitiva, una sostanziale equiparazione delle due distinte situazioni giuridiche.

Parte della dottrina ha, peraltro, prospettato l'incostituzionalità del criterio dell'iscrizione anagrafica per violazione dell'articolo 53 della Costituzione, perché inidoneo ex se a esprimere la reale capacità contributiva del soggetto passivo in termini di imposizione del reddito su base mondiale e, dunque, non solo del reddito prodotto in Italia, ma anche di quello di fonte estera.
In particolare, si è osservato, da un lato, che l'assunzione del solo elemento formale dell'iscrizione anagrafica prescinde dall'esistenza di un effettivo legame tra la persona, che potrebbe risultare in concreto privo di domicilio o di dimora abituale in Italia, e il territorio; inoltre, si è detto, colui che contribuisce dovrebbe pur sempre godere dei pubblici servizi che egli stesso concorre a finanziare.

Il quadro normativo appare ancora più contraddittorio posto che ai fini civilistici le risultanze anagrafiche, quando invocate dai terzi contro l'iscritto ovvero da quest'ultimo contro terzi non in buona fede, pongono solo una presunzione iuris tantum(2).
Non meno problematica appare la lettura dell'articolo 2 del Tuir avuto riguardo ai residui criteri di collegamento - domicilio e residenza - da assumersi, invece, stante il rinvio extraistituzionale al Codice civile, secondo le definizioni offerte dall'articolo 43 cc, laddove per domicilio si qualifica il sito in cui la persona ha stabilito la sede principale dei propri affari e interessi (primo comma) e per residenza il luogo di dimora abituale (secondo comma).
Ciò dipende in larga misura dall'eccessiva genericità che caratterizza le ricordate previsioni codicistiche - nell'ambito delle quali non è contemplata alcuna condizione di ordine temporale - e dalla conseguente oggettiva incapacità della giurisprudenza e della dottrina di giungere a una convergenza interpretativa intorno agli elementi materiali che ne costituiscono il fondamento.

Concetti come "sede principale", "affari e interessi" e "dimora abituale" possono, a ben vedere, assumere una portata e un'estensione più o meno vasta, in funzione dello specifico significato di volta in volta loro attribuito.
Secondo la tesi prevalente, il requisito della principalità(3) escluderebbe la possibilità di configurare, con riferimento al medesimo soggetto, una pluralità di domicili, anche se non è chiaro in presenza di più sedi con quali parametro essa debba essere misurata, mentre alla locuzione "affari ed interessi" dovrebbe attribuirsi un significato tale da comprendere, non solo gli interessi di natura economica e patrimoniale, ma anche quelli di indole morale(4).

Il secondo presupposto, la residenza(5), è stato interpretato dalla giurisprudenza civilistica come consistente di un elemento oggettivo o materiale, la permanenza in un luogo, e di uno soggettivo, l'intenzione(6) di dimorarvi abitualmente.

La giurisprudenza civilistica in proposito ha sancito che "la residenza è determinata dall'abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia l'elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale, estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente nel primo elemento".

La permanenza in un luogo non è compatibile con gli allontanamenti, anche se frequenti e di una certa durata.
Anche una o più o meno prolungata assenza dal luogo fissato come dimora abituale non fa venire meno la residenza, specie quando detta assenza sia cagionata da motivi contingenti.
Viceversa, se venisse meno la permanenza in un luogo, ma non l'intenzione di rimanervi, non sarebbe comunque possibile mantenere inalterata la residenza.
Da ciò discende che l'interpretazione civilistica di abitualità(7) assume inevitabilmente connotati quantitativi di abitudine o consuetudine.

Tratto distintivo del domicilio(8) rispetto alla residenza è il rilievo che assumerebbe, nel primo ma non nella seconda, la sfera volitiva della persona in rapporto all'elemento fattuale della presenza fisica, ossia, come parrebbe doversi desumere dalla locuzione "ha stabilito", l'intenzione resasi manifesta di voler collocare la sede dei propri affari e interessi in un determinato ambito spaziale.

La giurisprudenza civilistica ha considerato il domicilio il luogo in cui un soggetto mantiene il centro dei propri interessi, intesi non solo sotto il profilo economico e patrimoniale, ma anche morale e familiare, con riferimento, tra l'altro, al consorzio di vita coniugale(9).
In particolare, viene evidenziato che questo concetto, pur presupponendo una situazione di fatto costituita dall'avere una persona stabilito in un determinato luogo la sede principale dei propri affari e interessi, consiste principalmente in una situazione giuridica, caratterizzata "dalla volontà della persona di stabilire in quel luogo la sede generale delle sue relazioni di natura morale e sociale, nonché dei propri interessi economici".

La giurisprudenza tributaria ha mostrato di aderire alla concezione allargata di domicilio consolidatasi in materia civilistica, onde l'ampio risalto attribuito anche a elementi di chiara natura non patrimoniale.
In particolare, una pronuncia della Ctr di Bologna ha riconosciuto l'esistenza della sede principale degli affari e interessi nel territorio dello Stato e, quindi, la residenza fiscale a un noto tenore, cittadino italiano, anagraficamente residente a Montecarlo, sulla base di un insieme di circostanze: il possesso di numerose unità immobiliari prevalentemente ubicate nel Comune di origine, l'effettuazione di rimesse di denaro in Italia, il mantenimento di consistenti rapporti bancari con istituti creditizi locali, l'essere in Italia il luogo natio delle figlie e l'avervi stabilito il suo nucleo familiare, eccetera(10).
Più specificatamente, "la mole degli interessi mantenuti nel nostro Paese" in cui si antepone la disponibilità nello Stato ad quem di un locale di modeste dimensioni, unita alla mancata dimostrazione che il "suo domicilio fosse altrove", apparirebbe tale "da far ragionevolmente concludere" che il contribuente abbia mantenuto in Italia "il domicilio in tutti gli anni oggetto della controversia in questione".

Il concetto di domicilio ai fini tributari è stato di recente sottoposto ad un'accurata rilettura.
Dopo aver ulteriormente sottolineato l'inattualità delle pronunce giurisprudenziali - per le quali, come accennato, gli "affari e interessi", di cui all'articolo 43, comma 1, cc, dovrebbero ricomprendere anche la sfera non patrimoniale della persona - per essersi formate nel quadro di una disciplina del diritto di famiglia diverso da quello vigente - si è notato che, in una tale ottica, sarebbe dato desumere il domicilio nel territorio dello Stato di una persona fisica per il solo fatto che "ivi si trovi la dimora abituale della sua famiglia".
Nondimeno, sarebbe da revocarsi in dubbio la diretta e automatica valenza della chiave di lettura di matrice civilistica anche ai fini tributari, dovendosi più strettamente ricondurre la soggettività passiva a un nesso con il territorio che postuli una nozione degli affari e interessi in senso economico.

Il terzo criterio di collegamento riprende la nozione di residenza delineata dall'articolo 43, comma 2, con riferimento al luogo di dimora abituale della persona.
Per la sua concreta determinazione occorre identificare, in antitesi al domicilio che individua il centro della vita morale dell'individuo, la località dove il soggetto soggiorna con una certa stabilità e continuità, ossia la sfera degli interessi materiali di cui la presenza fisica dell'individuo è sicuro indizio.
L'animus, per contro, non assume rilievo se non nell'eventualità di trasferimento.

In conclusione, la definizione di residenza agli effetti dell'imposizione dei redditi posseduti dalle persone fisiche, enunciata nell'articolo 2 del Tuir, pone l'interprete di fronte a una vasta problematica che, nei casi più complessi, impedisce di pervenire a soluzioni ermeneutiche certe e univoche.
Vero è che, tanto nella giurisprudenza, quanto nella prassi dell'Amministrazione finanziaria, si è venuta consolidando la convinzione, seppure motivata anche dalla necessità di contrastare comportamenti di evasione fiscale, che ai criteri di collegamento accolti nel nostro diritto positivo possa essere attribuita prevalentemente una connotazione non economica.
Il che avviene assumendo la residenza in funzione delle risultanze anagrafiche e attribuendo a esse, qualora emerga l'iscrizione per oltre la metà del periodo d'imposta, un'efficacia pari a una presunzione iuris et de jure, oppure, nei riguardi dei non iscritti, qualificando, sebbene in modo discutibile, il domicilio in funzione della sfera morale e affettiva dell'individuo, dando, da ultimo, rilievo alla presenza di una dimora abituale nel territorio dello Stato(ad esempio, individuo che riconosce il figlio affidato in Italia).

E' da ritenere auspicabile un riesame dell'intera materia rivolto precipuamente alla revisione del nesso di interdipendenza ora operante con la disciplina codicistica, che tenga conto della diversa funzione che assolve, nell'ambito del diritto privato, l'individuazione della sede giuridica della persona.

NOTE:
1) Presupposto per l'iscrizione all'anagrafe, ai sensi degli articoli 1 e 3 del Dpr 30 maggio 1989, è l'avere nel Comune la propria dimora abituale o - per le persone senza fissa dimora - l'aver stabilito nel Comune il proprio domicilio. I cittadini italiani che abbiano stabilito la propria dimora abituale all'estero devono cancellarsi dall'anagrafe della popolazione residente e iscriversi all'anagrafe degli italiani residenti all'estero (Aire).

2) Cfr, da ultimo, Cassazione, 5 maggio 1998, n. 4518. La prova contraria è però inammissibile nel caso di trasferimento di residenza non attuato con il rispetto delle formalità di cui all'articolo 31 delle disposizioni attuative del Codice civile, ossia doppia dichiarazione fatta al Comune che si abbandona e a quello dove si intende fissare la dimora abituale.

3) In linea generale, la principalità dovrebbe essere riconoscibile esteriormente, e dunque essere oggetto di un accertamento di fatto attraverso parametri quantitativi e qualitativi. Per ciò che riguarda la determinazione della principalità secondo parametri quantitativi, non sembrano ravvisarsi particolari problemi. L'avere, ad esempio, studi professionali in luoghi diversi può portare alla determinazione di quello, tra tutti, "principale" sulla base del fatturato o del numero di collaboratori. Il riferimento al criterio qualitativo sposta il campo d'indagine a una sfera non facilmente penetrabile, come quella intellettiva. Ad esempio, tra l'essere amministratore delegato della Fiat con compenso onorario ed esserlo di una società con sede all'estero poco conosciuta, ma con un compenso milionario, una persona desiderosa di potere e prestigio sceglierebbe la prima carica, ritrovandosi fiscalmente residente in Italia; una persona, invece, desiderosa di danaro si orienterebbe verso la seconda, e, tra l'altro, non pagherebbe un euro d'imposta in Italia. L'articolo 43, inoltre, nel fare riferimento allo stabilire in un luogo la sede principale dei propri affari e interessi, sembra indicare che anche la sfera psichica di un soggetto deve, per quanto possibile, essere esaminata. Di fronte a siffatti problemi, è di soccorso quella dottrina che nega rilevanza all'intenzione di stabilire la sede, se non in quanto la volontà si sia concretamente attuata, dando luogo a una situazione reale in cui sia possibile ravvisare un certo raggruppamento di affari e interessi in un luogo, che denuncia la principalità nella maggiore consistenza e nella prevalenza di un centro rispetto ad altri di minore rilevanza.

4) All'espressione "affari e interessi" è stato attribuito un significato comprensivo sia delle attività economiche, sia degli interessi d'indole morale e sociale, sicché la determinazione del domicilio va desunta alla stregua di tutti gli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, denuncino la presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti e il carattere principale che esso ha nella vita della persona. Per citare la più recente, Cassazione, sezione II, 20 luglio 1999, n. 7750. Va sottolineato che tale interpretazione è stata già seguita dall'Amministrazione finanziaria, la quale ha affermato che nel caso di un soggetto iscritto all'Aire ed esercente attività di lavoro autonomo all'estero, egli deve considerarsi fiscalmente residente in Italia in quanto ha quivi mantenuto il centro dei propri interessi familiari e sociali.

5) Il concetto di residenza è rimasto a lungo compenetrato con quello del domicilio. Solo un'evoluzione delle condizioni sociali in rapporto alla mobilità dell'individuo ne ha cagionato il distacco dal domicilio e l'autonomo svolgimento. Oggi si può affermare che il domicilio riguarda la vita morale dell'individuo, nel suo più ampio significato, la residenza la sua vita fisica. Il domicilio rappresenta nello spazio la sfera d'azione della personalità; la residenza la sede materiale della persona.

6) La volontà si presume fino a prova contraria e ci si affida, in sede probatoria, a indici estrinseci, vale a dire a comportamenti del soggetto, alle sue abitudini di vita eccetera.

7) Il requisito dell'abitualità è stato inteso, ora nel senso di stabilità, ora nel senso di prevalente presenza in un determinato luogo. La prima tesi, a differenza della seconda, porta ad ammettere implicitamente la possibilità che il medesimo soggetto possa risultare (civilisticamente) residente in più luoghi. Alcuni autori individuano nel domicilio una res o un quid juris in contrapposizione alla residenza, considerata res o quid facti. Pertanto, mentre la residenza è intesa quale res facti perché non può prescindere dall'insistere sul luogo, con relativa stabilità, del soggetto e l'elemento intenzionale assume rilevanza per certi aspetti secondari, il domicilio è definito res iuris in quanto situazione "essenzialmente e anche soltanto giuridica caratterizzata dalla volontà". La tesi non può essere condivisa però da una porte della dottrina.

8) In particolare, il domicilio riposa su un elemento di fatto determinato dalla relazione di una persona con un luogo, integrato da un elemento di diritto, che consiste nell'avere il soggetto stabilito in quel luogo il centro dei suoi affari e interessi, anche a prescindere dall'effettiva presenza nel luogo considerato (Cfr Cassazione, 29 dicembre 1960, n. 3322). Nonostante ciò si nota un graduale avvicinamento della giurisprudenza alla tesi dottrinale dominante, dando maggior rilievo all'animus, quando si dice che il domicilio richiede non tanto l'elemento materiale della residenza in un luogo, quanto, un elemento intenzionale, rappresentato dalla volontà manifestata di fissare la principale sede dei propri affari ed interessi.

9) Cfr Cassazione, 21 marzo 1968, n. 884.

10) Il contribuente, quindi, lungi dall'aver effettivamente rescisso il proprio legame con il territorio di origine, vi avrebbe piuttosto conservato ininterrotti rapporti economici - comprovati da cospicue rimesse di denaro nonché dal possesso di proprietà immobiliari - e sociali. Sintomatiche, come accennato, sotto quest'ultimo profilo, sono, per l'ufficio, le circostanze che nella città di nascita dimoravano il coniuge e i parenti più stretti, che lo stesso coniuge svolgeva un ruolo attivo nella gestione del patrimonio familiare e che parte degli investimenti era dichiaratamente destinata alle figlie. In conclusione, i citati elementi integravano i presupposti del domicilio in senso privatistico, cui il ricordato articolo 2 del Tuir, per effetto del rinvio operato dal Codice civile, per sé solo ricollega la condizione di soggetto passivo residente. In conseguenza di ciò, l'imposta personale doveva colpire un imponibile comprensivo di tutti i redditi, inclusi quelli di fonte extra statuale.


L'applicazione di metodi di prelievo da parte di sistemi fiscali indipendenti ispirati ai diversi principi di fonte, residenza e nazionalità, pone le premesse, allorquando lo Stato di residenza non coincida con quello in cui si verifica il presupposto, per un possibile "conflitto positivo di tassazione"(1) e, in assenza di appropriati interventi correttivi, per la potenziale doppia imposizione del medesimo fatto espressivo di capacità contributiva.
Si tratta di una problematica che interessa la maggior parte degli Stati e che si è ancora più accentuata nella società moderna, caratterizzata da un crescente processo di globalizzazione del mercato e da una più intensa mobilità delle persone e dei fattori produttivi.
Gli Stati tendono a prevenire la doppia imposizione attraverso la stipulazione di trattati internazionali ai quali è affidato il compito di definire le regole e i criteri rivolti a ripartire la sovranità in materia fiscale propria degli ordinamenti contraenti sulle persone e sui fatti imponibili.

In merito, è radicata la propensione a uniformare il contenuto delle singole convenzioni a un modello messo a punto dall'Ocse(2) nel 1977, che funge da archetipo per tutti i Paesi aderenti a tale organismo, anche se un'influenza rilevante sulla prassi internazionale è esercitata oggi dal modello elaborato autonomamente dal dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti.

La soluzione del problema di doppia residenza fiscale(3) per le persone fisiche è demandata al paragrafo 2 dell'articolo 4 e, in base al quale quando una persona fisica è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, la situazione è determinata nel seguente modo:


detta persona è considerata residente dello Stato contraente nel quale ha un'abitazione permanente. Quando essa dispone di un'abitazione permanente in ciascuno degli Stati contraenti, è considerata residente dello Stato contraente nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali)
se non si può determinare lo Stato contraente nel quale detta persona ha il centro dei suoi interessi vitali, o se la medesima non ha abitazione permanente in alcuno degli Stati contraenti, essa è considerata residente dello Stato contraente in cui soggiorna abitualmente
se detta persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati contraenti ovvero non soggiorna abitualmente in alcuno di essi, essa è considerata residente dello Stato contraente del quale ha la nazionalità
se detta persona ha la nazionalità di entrambi gli Stati contraenti o se non ha la nazionalità di alcuno di essi, le autorità competenti degli Stati contraenti risolvono la questione di comune accordo.
Tali disposizioni, definite tie-breaker rules, prevedono una serie di criteri per determinare, in ipotesi di doppia residenza, quale dei due Stati contraenti dovrà avere prevalenza nel considerare residente il contribuente.
Come emerge dal disposto normativo, i criteri in questione non sono già alternativi, ma ordinati in linea gerarchica. Al riguardo, quid corporis iuris nell'interpretazione di abitazione permanente, centro degli interessi vitali, soggiorno abituale e nazionalità(4).

In linea generale, gli interpreti sono vincolati alla legislazione interna di riferimento, a meno che "il contesto non richiede una diversa interpretazione"(5).
Posto che l'Italia, nel concludere le sue convenzioni, si è conformata al modello Ocse, anche nell'elencazione delle tie-breaker rules, dal confronto dell'articolo 4, comma 2, con la legislazione interna si desume che l'espressione "abitazione permanente" sembrerebbe corrispondere alla residenza di cui all'articolo 43, comma 2, cc. L'espressione "centro vitale degli interessi vitali" sembrerebbe corrispondere al domicilio di cui all'articolo 43, comma 1, cc; il termine "nazionalità" sembrerebbe corrispondere alla cittadinanza, quale enucleata dalle leggi speciali e dalla giurisprudenza internazionale. Il "soggiorno abituale", infine, dovrebbe collocarsi entro l'ambito della dimora ex articolo 43, comma 2, cc.

Un altro problema che si pone nell'applicare l'articolo 4, paragrafo 2, del Trattato è quello di definire i rapporti con l'articolo 2-bis del Tuir che, come si vedrà in seguito, stabilisce che i cittadini cancellati dall'anagrafe delle persone residenti emigrati in Paesi a bassa fiscalità si presumono, salvo prova contraria, residenti in Italia.
Si ritiene che questa disposizione integri la definizione di residenza fiscale secondo la norma interna, con l'effetto che il contribuente residente in Italia, ex comma 2-bis del Tuir, lo sarà anche ai fini dei trattati, per effetto del paragrafo 1 dell'articolo 4 del modello Ocse.
Tuttavia, se in base alla norma interna dell'altro Stato contraente, lo stesso risultasse residente anche nell'altro Stato, diverrà operativo il paragrafo 2 dell'articolo 4 e, quindi, si dovrà stabilire, seguendo la priorità stabilita in tale norma, lo Stato in cui la persona ha un'abitazione permanente, quello in cui le relazioni personali ed economiche sono più strette, eccetera.

Il trasferimento di residenza come comportamento elusivo
Il problema del trasferimento di residenza quale comportamento elusivo d'imposta è nato dalla constatazione che sempre più frequentemente numerosi contribuenti, cittadini italiani, al fine di realizzare il guadagno fiscale, spesso cospicuo, assicurato da Paesi o territori esteri a bassa fiscalità (paradisi fiscali) cancellavano la propria residenza anagrafica per trasferirla artificiosamente nei predetti Stati(6).

In particolare, i comportamenti finalizzati alla riduzione dell'onere d'imposta si possono suddividere in attivi e passivi.
Sono passivi quei comportamenti con i quali il contribuente cerca di sottrarsi all'obbligo fiscale illegittimamente, cioè creando e occultando in tutto o in parte la materia imponibile al Fisco (evasione o frode fiscale), oppure legittimamente facendo in modo di non integrare i fatti elevati dal legislatore a presupposto d'imposta.
Sono attivi, al contrario, quei comportamenti che trasferiscono su altri soggetti l'onere fiscale (traslazione d'imposta).

Per evitare che i trattamenti fiscali di favore consentiti in alcuni Paesi o Territori esteri possano rappresentare un concreto e diffuso strumento di sottrazione d'imposta in Italia, l'articolo 2, comma 2-bis del Tuir, stabilisce che "si considerano residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con un decreto del Ministero delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale".

L'articolo in questione, data l'inefficienza dell'attuale normativa interna, che non è riuscita appieno a neutralizzare la condotta elusiva di alcuni soggetti, introduce un ulteriore criterio ai fini dell'individuazione della residenza fiscale - su cui si fonda il principio del "reddito mondiale", accolto dall'ordinamento italiano - nei confronti di quei contribuenti, cittadini italiani, che trasferiscono la residenza anagrafica in alcuni Stati esteri.
Questi ultimi catturano l'interesse fiscale di alcune categorie di soggetti, rifiutando sostanzialmente qualsiasi collaborazione o trasparenza con altre Amministrazioni oppure imponendo secretazioni agli elementi informativi delle proprie disposizioni normative.

La norma in commento, in sostanza, stabilisce il principio per cui i contribuenti che siano cittadini italiani(7), nei cui confronti si presume quindi uno stretto legame con il Paese, debbano continuare a essere considerati residenti in Italia ai fini fiscali, fatta salva la possibilità di fornire prova contraria.
La disposizione, mediante tale presunzione relativa di residenza, si risolve in un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente emigrato nel "paradiso fiscale", al quale è consentito dimostrare l'esistenza di fatti o atti che comprovino l'effettività della situazione dichiarata (cancellazione dell'anagrafe della popolazione residente) in coerenza con un reale e duraturo collegamento con lo Stato d'immigrazione.

Dal punto di vista formale, la prova contraria consiste nella dimostrazione di non essere residenti in Italia. Non è necessario, quindi, dimostrare di essere residenti in un altro Stato e, in particolare, nel "paradiso fiscale" nel quale si risulta immigrati.
Tuttavia, è evidente che si tratta di una dimostrazione molto difficile da fornire essendo una dimostrazione "in negativo".

Quanto ai concreti elementi di prova utilizzabili, pare da escludere che sia sufficiente l'esibizione di semplici certificati di residenza esteri. E' escluso, cioè, documentare l'esistenza delle condizioni che - nel paradiso fiscale - sono considerate sufficienti per ottenere la residenza.
In tale contesto, lo status di non residente si ricaverebbe in negativo dall'inesistenza "nel territorio dello Stato di una dimora abituale (residenza civilistica) ovvero del complesso dei rapporti afferenti gli affari e interessi, allargati, oltre che agli aspetti economici, a quelli familiari, sociali e morali (domicilio)".

Avrebbe particolare attitudine dimostrativa della perdita di un significativo collegamento con lo Stato italiano il possesso presso il Paese di emigrazione di un'idonea struttura abitativa, la movimentazione da e per l'Italia di somme di denaro, lo svolgimento di un rapporto lavorativo a carattere continuativo nel Paese estero, o, comunque, l'esercizio di una qualunque attività economica con carattere di stabilità, per quanto attiene alla sfera patrimoniale e personale.

Una concreta difficoltà nell'applicazione della norma da parte del Fisco potrebbe derivare dal fatto che spetta all'Amministrazione finanziaria accertare che il contribuente sia emigrato in un paradiso fiscale (condizione, questa, necessaria affinché possa scattare la presunzione relativa di residenza).
Trasferimenti di residenza, infatti, avvengono - a volte - transitando, in un primo momento, attraverso Paesi che non possono essere considerati paradisi fiscali.

NOTE:
1) L'espressione è tratta da V. Uckmar, I trattati internazionali in materia tributaria, pagina 739.

2) In linea generale, lo schema di convenzione prevede, come misure contro la doppia tassazione, il metodo dell'esenzione, che si traduce nell'esonero dal prelievo dei redditi o beni esteri, ovvero il metodo del credito d'imposta, che mira a realizzare un risultato analogo al precedente grazie al riconoscimento di una detrazione dall'imposta nazionale di un importo pari al corrispondente tributo effettivamente assolto all'estero. Per quanto attiene all'applicazione delle imposte sui redditi, si rileva nel modello l'esistenza di tre distinti gruppi di disposizioni che prevedono, alternativamente, l'imposizione in un solo Stato, ovvero l'applicazione del tributo in ambedue gli Stati titolari del potere d'imposizione, ma con un tetto massimo di prelievo nello Stato della fonte, ovvero ancora, l'applicazione del tributo in ambedue gli Stati titolari del potere d'imposizione senza alcun limite di prelievo nello Stato della fonte.

3) L'articolo 4 del modello di convenzione per evitare le doppie imposizioni elaborato dall'Ocse nel 1977 ha lo scopo, come si desume dal Commentario, di definire la locuzione "residente di uno Stato contraente" e di risolvere i casi di doppia residenza. Significativo è l'esempio formulato dallo stesso Commentario. Il caso è quello di in individuo che, pur avendo la sua abitazione permanente nello Stato A, dove vivono sua moglie e i suoi figli, ha abitato per più di sei mesi nello Stato B e, secondo la legislazione di quest'ultimo, è in conseguenza della durata del soggiorno tassato quale residente di tale Stato. Così, entrambi gli Stati pretendono che egli sia pienamente assoggettabile a imposta. In questo caso particolare, l'articolo 4 del modello di convenzione dà preferenza alla pretesa dello Stato A. Ciò non implica, tuttavia, che l'articolo determini speciali regole sulla "residenza" e che la legge interna dello Stato B sia ignorata perché incompatibile con tali regole. Viene semplicemente risolto il conflitto fra due ordinamenti, consentendo di operare una scelta comunemente accettata.

4) Il Commentario esamina ciascun criterio. In particolare, abitazione permanente: l'abitazione può essere posseduta a qualsiasi titolo purché il soggetto l'abbia a disposizione continuamente e non occasionalmente allo scopo di un soggiorno di breve durata; l'abitazione, quindi, deve essere stata sistemata e utilizzata per un uso permanente. Centro degli interessi vitali: è il luogo in cui le relazioni personali ed economiche dell'individuo sono più ristrette. Si avrà riguardo alle sue relazioni familiari e sociali, alla sua occupazione, alle sue attività politiche, culturali o di altro genere, alla sede d'affari o a quella dalla quale amministra le sue proprietà.

5) Ciò potrebbe accadere in una delle seguenti ipotesi: nel caso in cui uno Stato contraente non abbia una legislazione interna di riferimento, nel caso in cui detta legislazione interna contenga diverse definizioni, ovvero nel caso in cui l'utilizzo dell'espressioni del modello Ocse favorisca l'adozione di un'interpretazione che possa essere usata da tutti gli Stati che adottano lo stesso modello. Infatti, è previsto che questo possa essere adottato da tutti gli Stati aderenti all'Ocse e con lo stesso significato.

6) Ci si chiede se sia ammissibile una norma secondo la quale una persona fisica che trasferisce all'estero la residenza fiscale rimanga soggetta alla sovranità impositiva dello Stato a quo anche dopo il trasferimento. Alcuni ordinamenti giuridici prevedono siffatta obbligazione tributaria. L'ordinamento canadese, ad esempio, prevede la cosiddetta departure tax a carico di coloro che cessano di essere residenti fiscalmente in Canada, indipendentemente dal fatto che colui che opera il trasferimento sia o meno cittadino canadese. Il sistema tributario statunitense prevede una norma antielusiva secondo la quale i cittadini americani che nell'arco di dieci anni dal trasferimento della loro residenza al di fuori del territorio americano perdono la relativa cittadinanza, sono assoggettati alla alternative tax, se la perdita ha come uno dei suoi scopi principali il risparmio d'imposta. Ma una siffatta norma può giustificarsi ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione, secondo la quale tutti i cittadini sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche? Sarebbe opportuno in tal caso distinguere il trasferimento di residenza del cittadino italiano da quello dello straniero. Per il primo soggetto, lo Stato continua a sostenere delle spese riguardo il trasferimento (ad esempio, intervento consolare per favorirne l'inserimento all'estero), anche se il cittadino italiano al momento del trasferimento non integra nessuno dei criteri di collegamento, anagrafe, residenza o domicilio civilistico. Sarebbe giusto, quindi, contribuire anche minimamente a questo sforzo. Lo straniero, al contrario, che voglia trasferire la residenza dall'Italia all'estero, non potendo fruire dei servizi pubblici, non è giusto che sia gravato di questo "costo d'uscita".

7) La norma si rivolge esclusivamente ai cittadini italiani. Si deve ritenere che la cittadinanza deve essere attuale, cioè sussistere al momento in cui si verifica l'esistenza fiscale. Le modalità di acquisto, perdita e riacquisto della cittadinanza italiana sono regolate dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e dai regolamenti di attuazione emanati con il Dpr 12 ottobre 1993, n. 572, e con la legge 22 dicembre 1994, n. 736.


Fonte: Agenzia Entrate

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