Con la sentenza 4554 del 25 febbraio, la Corte di cassazione ha stabilito, in tema di determinazione del reddito d'impresa, che l'onere della prova dell'inerenza di costi deducibili, che grava sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità di quei costi. Pertanto, spetta alla società contribuente, cui venga contestata la sproporzione delle somme erogate rispetto a una mera attività di consulenza, provare la loro adeguatezza.

La vicenda
A seguito processo verbale di contestazione della Guardia di finanza conclusivo di una verifica fiscale, l'ente impositore adottò il correlato avviso di accertamento con il quale venivano recuperati a tassazione costi non deducibili Irpeg e Ilor nei confronti di una società esercente attività di costruzione e installazione di impianti di depurazione acque e di impianti industriali in genere.
Nel rettificare il reddito di impresa, l'ufficio motivò, in particolare, che i compensi dedotti nell'anno per commissione erano diretti a promuovere lo sviluppo di attività della società al fine di acquisire commesse estere, in concorrenza con società straniere, mediante dazioni illecite di denaro a terzi insider per concludere i relativi contratti e garantirsi il buon andamento degli stessi, come si evinceva da una lettera di corrispondenza rinvenuta in sede di verifica e riferita. Trattandosi di manovre illecite con dazioni di tangenti corrisposte ma camuffate con fatture fittizie, i relativi costi erano perciò non deducibili. Che la questione rappresentata non reggesse era dovuto al fatto che la cospicua entità delle somme erogate fosse "sproporzionata" per un'attività di mera consulenza. In ogni caso, era il contribuente - ha sostenuto l'ufficio nel corso del giudizio di secondo grado - che doveva smontare l'addebito, dimostrando la liceità e l'economicità dell'attività svolta dalla società. Sostanzialmente, quindi, si contestava con il recuperato a tassazione la deduzione dei detti costi per mancanza di inerenza all'attività esercitata, oltre che per inadeguatezza nell'ammontare.

I giudizi di merito hanno avuto esito favorevole al contribuente. L'ultima sentenza ha ritenuto addirittura arbitraria l'estrapolazione, dalla lettera di corrispondenza rinvenuta, di elementi di sospetto riversati dall'Amministrazione finanziaria nel proprio atto impositivo al fine di disconoscere le spese sostenute in quel periodo. Per la Commissione regionale rientrava nella normale prassi commerciale avvalersi di mezzi "forti" per vincere la concorrenza nell'acquisizione delle commesse, "tanto più che la promozione d'affari per conto altrui, o la mediazione costituiscono pratiche del tutto legittime, addirittura previste dal codice civile, né condannabili per il solo fatto di essere svolte da soggetti domiciliati in cosiddetti paradisi fiscali", ma da qui a considerare dazioni illegittime somme di denaro a funzionari per favorire la partita appariva davvero grave.
Di conseguenza, sul versante dell'onere della prova - sosteneva la Commissione regionale - non era stato fornito dall'Amministrazione procedente alcun elemento atto a sorreggere la presunzione.

Nel ricorso per cassazione, l'Amministrazione finanziaria sostiene invece che, a fronte della contestata utilizzazione del consulente estero per corrispondere corrispettivi illeciti a terzi al fine dell'acquisizione delle commesse, la società non ha fornito alcuna prova, tanto nella fase amministrativa quanto in quella processuale, delle prestazioni e dei servizi effettivamente ricevuti né del collegamento diretto e funzionale con le attività produttive.
Quindi il giudice dell'appello avrebbe errato nel ribaltare l'onere della prova sull'Amministrazione finanziaria (in violazione dell'articolo 2697 cc), poiché, secondo i principi che presiedono alla determinazione del reddito di impresa (in particolare, l'articolo 75 del Tuir), i costi esposti dalle società possono essere dedotti solo ove siano funzionalmente e direttamente collegati con l'attività produttiva dell'impresa, per cui non si capisce come nella specie esborsi effettuati per fini illeciti, sia pure interferenti o connessi con l'attività dell'impresa, possano concorrono, direttamente o indirettamente, alla formazione del reddito imponibile.

La decisione della Cassazione
La Suprema corte accoglie l'articolata censura dell'Amministrazione finanziaria sulla scorta di un consolidato orientamento di legittimità, che ha affermato il principio, in tema di accertamento Irpeg, che l'onere della prova dei presupposti dei costi e oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione alle attività produttive dei ricavi, incombe sul contribuente, ai sensi dell'articolo 2697 cc, e ciò - senza soluzione di continuità - sia nella vigenza della precedente regolamentazione (Dpr 597/1973 e Dpr 598/1973) sia in quella attuale contenuta nel Dpr 917/1986 (Cassazione 4502/2009, 11514/2001, 4345/2003, 18710/2005, 1709/2007, 11078/2008). Perciò è quest'ultimo, qualora intenda sostenere l'esistenza di costi maggiori di quelli considerati, che deve documentare che essi sono stati effettivamente sostenuti e che sono inerenti all'esercizio cui l'accertamento si riferisce (Cassazione 11240/2002).

Inoltre, è stato stabilito dal diritto vivente che rientra nei poteri accertativi dell'Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi "esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell'esercizio dell'impresa, con negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa" (Cassazione 12813/2000).

Per quanto sopra, l'onere della prova dell'inerenza dei costi, nonché della competenza, presupposti della deducibilità ex articolo 75 del Tuir (oggi, articolo 109), gravante sul contribuente anche per discendenza civilistica (articolo 2697 cc), in presenza di argomentata contestazione, ha ad oggetto anche la "congruità" dei costi stessi, intesa come "proporzionalità" tra la spesa sostenuta in relazione all'attività esercitata e il volume dei ricavi dichiarato (per l'Iva, cfr la fondamentale disposizione contenuta nell'articolo 19 del Dpr 633/1972). In altri termini, la valutazione della congruità dei costi è insita nei poteri di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, la quale può procedere alla rettifica delle dichiarazioni osservando le regole dettate dal legislatore in materia di reddito di impresa, negando la deducibilità di parte di un costo, ove questo superi il limite al di là del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all'oggetto dell'impresa; ciò anche non ricorrendo irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici compiuti nell'esercizio d'impresa.

Rileva poi la Corte che, nella fattispecie sottoposta alla sua valutazione, non è tanto da valorizzare il fatto in sé (illecita destinazione delle risorse costituenti il costo) quanto piuttosto, anche secondo un giudizio emergente dall'id quod plerumque accidit:
•la contestata "sproporzione" delle somme erogate rispetto a una pura e semplice attività consulenziale
•la mancata prova da parte della contribuente, in presenza di tale rilievo, della loro adeguatezza, sotto il profilo dell'irragionevolezza in termini economico-quantitativi delle attività svolte.

A tal fine, l'esercizio del potere di rettifica delle dichiarazioni non rende anche necessario l'accertamento della nullità dei negozi giuridici attraverso i quali i fatti di gestione dell'impresa sono realizzati (Cassazione 12813/2000).

La Cassazione rileva ancora sul piano concreto che la correttezza dell'operato dell'Ufficio deriva dal raffronto eseguito in sede di accertamento tra il "fatto noto" - costituito dal contenuto della lettera acquisita agli atti - e la sproporzione delle somme imputate in bilancio rispetto alla remunerazione di un'attività di consulenza. Le risultanze di questo accadimento appaiono, quindi, agli occhi della Corte di legittimità, adeguatamente pertinenti rispetto all'oggetto dell'accertamento, anche considerando la continuità dei rapporti - regolati da un contratto di rappresentanza - intercorsi da tempo tra la società estera e la società contribuente, "da cui si evince la molteplicità degli incarichi conferiti e le modalità di corresponsione delle commissioni, subordinate alla clausola salvo buon fine".
Anche riguardo a quest'ultimo elemento, ne è stata suggellata la legittimità, considerato che la Suprema corte si è espressa più volte sull'"idoneità" di elementi tratti da periodi di imposta diversi da quello oggetto dell'accertamento, indicando che, ai fini dell'accertamento del reddito d'impresa ai sensi dell'articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973, assumono rilevanza anche le emergenze presuntive che possono essere utilizzate come fonte di prova di attività non dichiarate, di guisa che una riscontrata, potenziale redditività di un'impresa in esercizi diversi da quelli oggetto dell'accertamento può essere suscettibile di fornire elementi indizianti ai fini della rettifica dei redditi relativi a tali ultimi esercizi e del realizzato conseguimento di utili maggiori di quelli dichiarati quando risulti incontestata l'oggettiva continuità dell'attività imprenditoriale (Cassazione 10656/2001).

Analoghe pronunce in materia di Iva
Anche ai fini Iva, la questione della detraibilità dell'imposta è stata affrontata più volte dalla Corte di cassazione e, quasi sempre, il giudice di legittimità ha concluso con l'affermare l'obbligatorietà del requisito dell'inerenza, precisando come tale requisito debba essere dimostrato dalla parte contribuente.

In particolare, con la sentenza 3706/2010, la sezione tributaria si è pronunciata in materia di condizioni necessarie per effettuare legittimamente una detrazione Iva, con particolare riferimento al requisito dell'inerenza del bene acquistato rispetto all'attività esercitata, e ha affermato che l'articolo 19, comma 1, Dpr 633/1972, pur consentendo all'acquirente di portare in detrazione l'imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore, ancorché si tratti di acquisto effettuato nell'esercizio di impresa, richiede, oltre alla qualità d'imprenditore dell'acquirente, l'inerenza del bene acquistato all'attività imprenditoriale, intesa questa come strumentalità del cespite stesso rispetto a detta specifica attività. Secondo tale impostazione, che riprende un indirizzo giurisprudenziale già esistente (Cassazione 16730 e 11765 del 2008, 3022/2007), la norma, non introducendo una deroga ai comuni criteri di onere della prova, lascerebbe la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell'interessato. Nei casi di specie, in sostanza, la possibilità di effettuare la detrazione richiederebbe un quid pluris rispetto al solo requisito soggettivo (qualità di imprenditore in capo all'acquirente) costituito dall'inerenza o strumentalità del bene acquisito rispetto all'attività imprenditoriale.

La Corte di cassazione si è anche più volte pronunciata sul tema, di grande attualità, dell'indebita detrazione Iva relativa a costi fittizi, chiarendo che l'inesistenza di una determinata operazione deve essere provata dall'Amministrazione finanziaria, quale parte attrice sostanziale del rapporto tributario dedotto davanti all'organo giurisdizionale, ma che conseguentemente spetta all'Erario l'onere di dimostrare la falsità della fattura (intesa quale documento attestante l'effettuazione dell'operazione). Tuttavia, laddove siano dedotti indizi idonei a confutare la veridicità dei documenti contabili, spetterà al contribuente l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni imponibili (Cassazione 15395/2008), cosiddetta "prova di estraneità" (cfr Cassazione 17377/2009).

In proposito, il problema che sta impegnando in modo ricorrente la giurisprudenza concerne il tema della prova della falsità delle fatture. Su questo versante si segnala la pronuncia 4013/2010, nella quale la Suprema corte ha aggiunto al precedente dictum l'affermazione che nello specifico contesto il diritto alla detrazione non sorge immancabilmente per il solo fatto dell'avvenuta corresponsione di imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, che l'imposta sia effettivamente dovuta, cioè corrispondente a operazioni effettivamente soggette a Iva (Cassazione 735/2010; cfr anche Cassazione 13916/2006 e 11084/2008).


Fonte: Agenzia Entrate

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