In tema di fatture afferenti operazioni economiche inesistenti, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo sostenuto, non assumendo rilievo l'asserita "buona fede", ossia l'avere agito ignorando di intrattenere rapporti economici con una "cartiera".

Sono queste le conclusioni espresse dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 6620 del 19 marzo 2009.

Il fatto

La controversia sottoposta al vaglio della Suprema corte trae origine dall'impugnazione di un avviso di accertamento, con il quale l'agenzia delle Entrate contestava a una srl l'utilizzazione, nell'ambito dell'attività di "commercio di metalli", di fatture relative a operazioni inesistenti, intercorse tra la suddetta srl e altre due società.

In particolare, in seguito al controllo incrociato delle fatturazioni e delle contabilizzazioni, effettuato mediante apposita verifica fiscale presso la sede della srl e delle altre due società, l'Agenzia era giunta alla conclusione che queste ultime avevano agito da "cartiera" nei confronti della prima, consentendole così di ottenere un illecito risparmio d'imposta sia ai fini Ires che Iva.

La Ctp respingeva il ricorso presentato dalla società contribuente, mentre i giudici di secondo grado ritenevano fondato l'appello, rilevando, tra l'altro, che la srl aveva "ricostruito" la contabilità al fine di provare l'effettivo acquisto di una particolare categoria di metalli (nella specie, si trattava di pani di zinco elettrolitico), di conseguenza, doveva ritenersi che le relative fatture si riferivano a merce successivamente venduta dalla società appellante.

 

Avverso la sentenza di secondo grado, l'Amministrazione fiscale ricorre per cassazione, lamentando non solo la mancata dimostrazione che le società emittenti le fatture erano effettivamente operanti e in grado di acquistare ingenti quantità di metalli asseritamene oggetto di cessione, ma anche che la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni ai fini Iva (che deve essere, peraltro, fornita dal contribuente), non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento. Questi, di solito, vengono utilizzati "fittiziamente" per dare corpo a una transazione inesistente e, pertanto, rappresentano un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali.

Peraltro, la motivazione della sentenza impugnata non consentiva di individuare quali fossero gli elementi certi sui quali basare una eventuale prova presuntiva della effettività dei costi in questione, né chiariva quale incidenza avesse la "ricostruzione" della contabilità (in relazione alla vendita di una particolare categoria di metalli), sull'ammontare complessivo delle riprese a tassazione riportate nell'avviso di accertamento.

La sentenza

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato dall'agenzia delle Entrate, affermando che in tema di Iva, qualora l'Amministrazione contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture (in quanto relative a operazioni inesistenti) e fornisca attendibili riscontri indiziari sull'inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare l'effettiva realizzazione dei costi sostenuti, non assumendo rilievo l'asserita "buona fede".

Come più volte puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità, mentre l'Amministrazione finanziaria può fornire la prova dell'inattendibilità delle fatture anche con meri indizi (adducendo, per esempio, che le fatture sono state emesse da una "cartiera", vale a dire da una impresa fittizia che ha come unica o prevalente attività la vendita di fatture false), spetterà, invece, al contribuente provare che l'operazione commerciale oggetto della fattura è effettiva, nonché dimostrare di avere ricevuto la merce fatturata e di averla pagata (cfr Cassazione, sentenze 7144/2007 e 16896/2007).

È, pertanto, evidente che, allorquando il contribuente non sia in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione ai fini Iva, questa deve ritenersi indebita, sicché legittimamente l'ufficio provvede a recuperare a tassazione l'imposta irritualmente detratta e il contribuente non potrà controdedurre di avere agito in "buona fede, ignorando di avere intrattenuto rapporti economici con una "cartiera".

Al riguardo, è utile ricordare che le conclusioni raggiunte sono coerenti con altre precedenti pronunce della Suprema corte, laddove è stato affermato che qualora le fatture risultino non solo "soggettivamente" ma anche "oggettivamente" fittizie, sia la mancata conoscenza dell'illegalità degli accordi esistenti tra le altre società interessate alle vendite (buona fede), sia la correttezza formale della contabilità del soggetto passivo non possono "costituire un comodo alibi per giustificare una violazione delle leggi fiscali" (cfr Cassazione, sentenza 2847/2008).

D'altra parte, sempre secondo un orientamento giurisprudenziale costante, l'infrazione fiscale si configura "per il solo fatto oggettivo che il contribuente, con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia determinato il rischio per l'Amministrazione di non conseguire il pagamento dell'imposta effettivamente dovuta".

Insomma, ai fini fiscali in genere e dell'Iva in particolare, ciò che rileva "è il solo fatto oggettivo dell'infrazione", stanti le puntuali e rigorose prescrizioni che disciplinano il regime delle esenzioni, delle detrazioni, delle aliquote e delle compensazioni (cfr Cassazione, sentenze 11110/2003, 1015/2005, 8540/2005 e 1950/2007).

Conseguentemente, ove pure il contribuente dimostri di essere in buona fede e di non essere partecipe degli accordi fraudolenti, "la circostanza sarebbe egualmente irrilevante agli effetti dell'iter decisionale della controversia fiscale" (cfr Cassazione, sentenza 8959/2003).

Fonte: Agenzia Entrate

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