La sanzione amministrativa irrogata dall'Autorità antitrust non può essere dedotta dai ricavi d'esercizio in quanto il carattere illecito dell'attività realizzata non può tradursi in un vantaggio fiscale per l'imprenditore sanzionato.

E' questo, in sintesi, il ragionamento con il quale la Commissione tributaria regionale di Torino ha confermato - con la sentenza n. 37 del 24 marzo 2009 - la legittimità del diniego di rimborso opposto dall'ufficio fiscale a una società di capitali che, con apposita istanza, aveva chiesto la restituzione dell'Irpeg corrispondente alla mancata deduzione dai ricavi della sanzione comminata dall'Autorità antitrust per violazione delle norme concorrenziali (legge 287/1990).

Si tratta di una decisione di sicuro interesse in quanto, pur riconoscendo che la condotta sanzionata è riconducibile all'attività commerciale posta in essere dalla società, individua quale elemento centrale dell'indeducibilità il carattere illecito della condotta stessa: tale circostanza esclude l'assimilabilità del relativo esborso monetario agli altri costi sostenuti dall'impresa e normalmente deducibili in sede di determinazione del reddito.

Il fatto che le condotte sanzionate dalla disciplina posta a tutela della concorrenza e del mercato vengono realizzate durante lo svolgimento dell'attività d'impresa, non modifica comunque il significato della sanzione in questione, intesa cioè quale misura repressiva volta a colpire i comportamenti illeciti posti in essere dall'imprenditore e a disincentivarne il ripetersi.

In altre parole, se è indubitabile che queste sanzioni vengono inflitte per comportamenti tenuti "nell'ambito" dell'impresa, è tuttavia altrettanto chiaro che le stesse si applicano in tutti quei casi in cui l'imprenditore svolga la propria attività - di per sé normalmente lecita - ricorrendo a condotte anticoncorrenziali illecite in quanto contrarie alla predetta normativa di settore che, come noto, trova fondamento nei principi comunitari in materia di concorrenza (articoli 81 e seguenti, Trattato Cee 25/3/1957).

Se tali sono i presupposti e la ratio della sanzione antitrust, è chiaro che la stessa non può considerarsi un costo d'impresa.

Tale conclusione, a ben vedere, s'impone anche sotto un profilo logico: in un caso infatti l'imprenditore sceglie preventivamente di affrontare una spesa funzionale alla propria attività che, quantomeno nelle sue intenzioni, sarà idonea a incrementarne i futuri ricavi; nell'altro invece egli, proprio in conseguenza della condotta illecita tenuta, subisce l'effetto per lui sfavorevole della decisione coercitiva assunta dall'autorità amministrativa antitrust.

L'evoluzione della giurisprudenza di merito

Questa decisione della Commissione tributaria regionale di Torino s'inserisce nell'ambito di un'elaborazione giurisprudenziale che, dopo alcune iniziali sentenze contrarie alla tesi erariale, è andato negli anni più recenti a consolidarsi in senso prevalentemente favorevole all'indeducibilità delle sanzioni antitrust.

In passato, alcune pronunce (Ctp di Milano n. 370 dep. 4/4/2001; Ctp di Matera n. 437 dep. 4/10/2001) avevano ammesso la deduzione sulla base di tre argomenti principali: la sussistenza di un collegamento diretto tra queste sanzioni e la gestione dell'azienda; la natura risarcitoria e ripristinatoria che le medesime assumerebbero rispetto all'equilibrio concorrenziale leso; il fatto che le condotte sanzionate concorrerebbero a produrre maggiori ricavi comunque assoggettati a tassazione, talché la loro mancata deduzione violerebbe il principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.).

Negli anni a seguire però la giurisprudenza ha mutato il proprio indirizzo riconoscendo l'indeducibilità delle sanzioni in questione.

Questo opposto orientamento, da ritenersi a oggi prevalente, annovera tra le altre - oltre alla pronuncia sopra commentata - le seguenti sentenze: Ctr del Piemonte n. 7 dep. 14/1/2009; Ctp di Torino n. 49 dep. 20/3/2007; Ctr del Piemonte n. 55 dep. 23/11/2006; Ctp di Firenze n. 45 dep. 7/4/2006; Ctr Lombardia n. 10 dep. 25/6/2004; Ctr Lombardia n. 17 dep. 31/5/2004; Ctp di Cagliari n. 347 dep. 2/7/2002; Ctp di Milano n. 79 dep. 23/4/2002.

Da queste pronunce possono sinteticamente evincersi le ragioni che stanno alla base dell'indeducibilità delle sanzioni antitrust.

In primo luogo - come detto in precedenza a commento della sentenza del giudice d'appello piemontese n. 37/2009 - il fatto che la sanzione colpisca una condotta tenuta dall'imprenditore nell'ambito della propria generale attività non esclude di per sé l'illiceità di questa specifica condotta, ove la medesima integri una delle fattispecie previste dalla legge 287/1990.

Secondariamente, lo stesso quadro normativo di riferimento della disciplina antitrust attribuisce a queste sanzioni una funzione repressiva, escludendone così la natura risarcitoria. Tale posizione è d'altronde in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI sentenza 20/3/2001 n. 1671), che ha chiarito come la pena pecuniaria per l'illecito anticoncorrenziale non abbia natura di misura patrimoniale civilistica ma di sanzione punitiva e afflittiva.

Ciò appare peraltro confermato dalla previsione, contenuta nell'articolo 15 della legge 287, di un criterio di quantificazione della sanzione proporzionale al fatturato dell'impresa nell'ultimo esercizio: si riscontra così in questa norma una chiara applicazione della regola, propria di ogni sanzione pecuniaria repressiva, tesa a rapportarne l'entità alle reali condizioni economiche del responsabile (articolo 11 della legge 689/1981).

La stessa norma antitrust, allorché disciplina l'aspetto sanzionatorio, rinvia espressamente (articolo 31 della legge 287) alla legge 689/1981, confermando quindi che anche per queste sanzioni operano i principi di legalità, colpevolezza ed effettività propri di tutte le sanzioni amministrative, alle quali si riconosce pacificamente una funzione afflittiva e deterrente rispetto ai comportamenti disapprovati dall'ordinamento.

Questo vale ad escludere che a esse possa attribuirsi una diversa funzione risarcitoria, come peraltro risulta anche sotto il profilo logico se solo si pone mente al fatto che gli articoli 2 e 3 della legge 287 configurano e reprimono condotte anticoncorrenziali indipendentemente dal prodursi di un effettivo danno: si colpiscono infatti la stipula di intese restrittive e/o gli abusi di posizioni dominanti in quanto tali, a prescindere dal fatto che le stesse arrechino in concreto un danno al mercato.

Anche l'ultimo argomento speso a sostegno della deducibilità delle sanzioni - cioè l'asserita violazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) che si determinerebbe negandone la deduzione e tassando contestualmente i maggiori ricavi prodotti - non trova accoglimento nella prevalente giurisprudenza di merito.

In base a tale argomentazione, l'indeducibilità delle sanzioni determinerebbe una duplicazione dell'imposizione su quella parte di ricavi utilizzata per pagare la sanzione.

Questa tesi, tuttavia, è affetta da un vizio di fondo.

Le spese funzionali alla realizzazione delle condotte anticoncorrenziali, quali ad esempio quelle sostenute per concludere le intese abusive o acquisire e abusare di posizioni dominanti sul mercato (contratti, acquisizioni societarie, organizzazione ed elaborazione di banche dati eccetera) vanno infatti considerate come costi d'impresa che in quanto tali - ove non siano anche afferenti a illeciti penali - possono essere dedotti dai ricavi (articolo 14, comma 4-bis, legge 537/1993).

Altro però sono le sanzioni antitrust che, per le ragioni sopra descritte, non possono considerarsi quali costi funzionali all'attività d'impresa e la cui indeducibilità, di conseguenza, non comporta alcuna duplicazione dell'imposizione contraria al principio della capacità contributiva.

La posizione dell'agenzia delle Entrate

L'orientamento giurisprudenziale prevalente appena descritto và così confermando la posizione assunta dall'Amministrazione finanziaria in ordine all'indeducibilità delle sanzioni antitrust con la circolare ministeriale 98/2000, poi ribadita e specificata dall'agenzia delle Entrate con la risoluzione 89/2001 (richiamata dalla Circolare 55/2002) e con la circolare 42/2005.

In particolare, con quest'ultimo documento di prassi, si è precisato che "[…] la rilevanza fiscale dei proventi illeciti e la conseguente deducibilità dei correlati costi di origine illecita (eccezion fatta […] per i costi riconducibili ad illeciti penalmente rilevanti), […] non può condurre ad affermare la deducibilità anche degli oneri sostenuti a titolo di sanzione amministrativa. Ciò in quanto le sanzioni:

- In primo luogo, costituiscono non costi di origine illecita, bensì il frutto della reazione dell'ordinamento, fondata sulla legge, ad un comportamento illecito;

- In secondo luogo, non possono essere considerati costi finalizzati alla produzione di quei proventi.

Occorre distinguere, in altri termini, tra le spese sostenute per porre in essere l'attività e le spese sostenute a causa ed in conseguenza dell'illiceità dell'attività. […]".

Proprio la considerazione di tale distinzione di fondo, si ritiene, permette di comprendere la natura e la funzione delle sanzioni da illeciti anticoncorrenziali e di distinguerle dai normali costi inerenti l'impresa.

Il che, in coerenza con la prevalente giurisprudenza sopra citata, consente di escluderne l'assimilabilità ai costi d'impresa: da qui la loro indeducibilità in sede di determinazione del reddito d'impresa ex articoli 75 e seguenti del Tuir.


Fonte: Agenzia Entrate

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