Con sentenza n. 194/06/08 del 22 gennaio 2008, la Commissione tributaria provinciale di Firenze respinge un ricorso concernente la deducibilità di spese ed altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese domiciliate fiscalmente in stati off-shore. I giudici ribadiscono che le condizioni dettate dall’articolo 110, comma 11, del Tuir, debbono sussistere precisando, nel contempo, quale sia il contenuto dell’onere probatorio dettato dalla disposizione.

La normativa

La normativa applicata al caso di specie era dunque quella di cui all’articolo 110, comma 10, del Tuir, il quale prevede che "non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all'Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati ..." alla cui individuazione hanno provveduto alcuni noti decreti ministeriali.

Subito dopo, il comma 11 dell'articolo 110, consente del resto la disapplicabilità della norma di sfavore, a condizione però che il contribuente italiano sia in grado di provare, alternativamente, la sussistenza di una delle due circostanze esimenti rappresentate, rispettivamente:

dallo svolgimento prevalente, da parte dell'impresa estera, di un'attività commerciale effettiva

dalla rispondenza delle operazioni, le quali devono avere avuto concreta attuazione, a un effettivo i-nteresse economico dell'impresa italiana.

L'ultimo periodo del comma 7-ter e del corrispondente comma 11, infine precisa che la deduzione delle spese "è comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti".

Tale periodo è stato però soppresso dalla legge 296/2006, in vigore dal 1° gennaio 2007.

La stessa Finanziaria 2007 ha aggiunto il seguente periodo "Le spese e gli altri componenti negativi deducibili ai sensi del primo periodo sono separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi".

L’indicazione in dichiarazione dei costi di cui al comma 10 dell’articolo 110 del Tuir resta quindi un obbligo, ma la mancata indicazione non comporta più il recupero automatico dei costi e l’irrogazione di una corrispondente sanzione (pari all’importo dei costi non indicati), ma solo una ben più ridotta sanzione pari al 10% dell'importo complessivo dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione, con un minimo di 500 euro e un massimo di 50mila euro.

Il caso davanti alla Commissione tributaria e la tesi dell’Amministrazione

Tanto doverosamente premesso in ordine alla normativa di riferimento, la sentenza sopra indicata rappresenta uno dei primi riscontri giurisprudenziali in ordine a quale, tra le opposte tesi in giudizio, dei contribuenti da una parte e dell’Amministrazione dall’altra, sia o meno corretta.

La società ricorrente sosteneva infatti che il recupero era comunque illegittimo in quanto:

pur non avendo essa indicato tali spese in dichiarazione, aveva comunque presentato successivamente una dichiarazione integrativa, regolarizzando così l’errore formale

aveva in ogni caso dimostrato che gli acquisti erano realmente avvenuti e che la convenienza economica derivava ictu oculi dal ricarico, doppio rispetto alla produzione nazionale o comunitaria.

L’ufficio sosteneva invece che l'indicazione di tali costi in dichiarazione aveva valenza segnaletica di una situazione "a rischio" nei confronti dell'Amministrazione finanziaria e la sua inosservanza doveva quindi comunque essere punita con la indeducibilità del costo.

L'intento del legislatore era infatti, evidentemente, quello di favorire i controlli da parte dell'Amministrazione finanziaria e di impedire così facili frodi.

Pertanto, è evidente che l’adempimento in questione non rientra tra quelli "meramente formali" (così come invece sosteneva il ricorrente), ma piuttosto rappresenta una condizione necessaria per il rispetto della normativa in questione. Tale adempimento assume quindi natura sostanziale.

Peraltro, la società contribuente avrebbe comunque potuto provvedere a emendare la dichiarazione proprio al fine di indicare i costi per le operazioni con imprese residenti in paradisi fiscali.

L'agenzia delle Entrate, infatti, con la risoluzione 12/2006, dando sostanza al principio generale di tutela della (presunta) buona fede del contribuente, codificato dall'articolo 10 della legge 212/2000, ha ritenuto possibile la presentazione di una dichiarazione correttiva, la quale, attraverso la separata indicazione dei costi per operazioni con imprese residenti in paradisi fiscali, ponga rimedio alla precedente omissione.

La sola (necessaria e logica) condizione per usufruire di tale “sanatoria” era però che non fossero iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento nei confronti dello stesso contribuente.

In tal caso, del resto, parlare ancora di buona fede (laddove, si ripete, lo scopo della disciplina era quello di agevolare l’attività investigativa dell’ufficio) a cui venire incontro non avrebbe alcun senso (una volta cominciata l’attività investigativa e rinvenute le operazioni non indicate in dichiarazione, che senso avrebbe infatti una sanatoria del genere: per premiare la “furbizia” di chi è stato colto in flagranza di omissione?).

Il contribuente, in tali casi, deve comunque dimostrare, in alternativa, che:

il soggetto estero svolge prevalentemente un'attività commerciale effettiva

che le operazioni poste in essere corrispondono ad un effettivo interesse economico e (e, non o, poiché l’alternativa è solo riferita alla prima previsione) che le stesse operazioni abbiano avuto concreta esecuzione.

Per quanto riguarda la effettività dell'attività commerciale da parte dell’impresa estera, una prima prova potrebbe essere dunque rappresentata dalla produzione di certificazioni e attestazioni rilasciate da organismi esteri, anche se non si può non evidenziare come una simile attestazione provi soltanto l'esistenza formale del soggetto estero.

Certamente più rilevante sarebbe allora l'esibizione di un bilancio convalidato dall'autorità nazionale, visto che da questo dovrebbero comunque emergere elementi sufficientemente idonei a provarne la reale operatività.

In relazione al secondo tipo di prova (interesse economico dell’impresa italiana e effettività dell’operazione), è invece necessario dimostrare che le stesse operazioni (oltre a essere concretamente avvenute) corrispondessero anche a un effettivo (e dimostrabile) interesse economico del contribuente.

La scelta imprenditoriale deve avere dunque una valida giustificazione di tipo economico a beneficio dell’attività imprenditoriale con riferimento, in particolare, all’entità del prezzo praticato, la qualità dei prodotti forniti e la tempistica e puntualità della consegna.

L’idoneità della prova documentale è subordinata inoltre alla circostanza che, non solo il prezzo della merce importata, ovvero dei servizi ricevuti, sia inferiore a quello praticato in altro Paese (economicamente comparabile), ma anche che tutte le altre condizioni di vendita (termini di consegna e di pagamento, qualità dei materiali, costo di trasporto eccetera) siano identiche e che gli elementi conoscitivi offerti dalla società rappresentino fedelmente la realtà aziendale.

Ebbene, nel caso affrontato dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, le osservazioni probatorie formulate dal contribuente, ad avviso dell’ufficio, erano assolutamente irrilevanti, sia per il limitato numero degli articoli presi in considerazione sia per le modalità con cui la parte aveva ritenuto di fornire la prova dell’interesse economico.

Infatti:

il numero degli articoli rispetto ai quali il contribuente asseriva di avere fornito una (in realtà, anch’essa non conferente) prova contraria era pari a solo tre unità, quantità del tutto irrilevante considerato il numero degli articoli commercializzati

la tipologia di articoli non consentiva di effettuare un confronto con altri identici o similari (o comunque comparabili) prodotti. Tale ultima circostanza rendeva quindi privo di valore il confronto effettuato dalla società tra la percentuale di ricarico applicata sul costo industriale dei prodotti realizzati in Italia e quella applicata sul costo di acquisto dei prodotti importati da Kong Kong

la società non aveva effettuato del resto neppure alcuna comparazione rispetto alla qualità dei materiali utilizzati, alle condizioni di consegna della merce, ai termini di pagamento, alle spese di trasporto eccetera

la società infine, nel cercare di dimostrare la competitività dei prezzi praticati dalla società residente in Hong Kong, non aveva preso a termine di raffronto i prezzi praticati in altri Paesi, i cui mercati fossero almeno comparabili con quello della società cedente.

Secondo l’ufficio, quindi, il criterio da utilizzare per dimostrare l’effettivo interesse economico doveva essere quello del valore normale di cui all’articolo 9 del Tuir, laddove per valore normale si intende "il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e in mancanza nel tempo e nel luogo più prossimi".

Solo quindi se vi è una evidente e apprezzabile differenza tra i due prezzi, sarà confermata la deducibilità dei costi per effettivo interesse economico all’operazione.

Solo una volta rilevato qual è effettivamente il valore normale di quell’operazione, si potrà verificare se l’operazione intercorsa con il paradiso fiscale rispondeva o meno a un effettivo interesse economico (essendo il prezzo praticato effettivamente inferiore al valore normale dei beni, comparabili, oggetto di cessione), laddove, in ogni caso, le transazioni oggetto di paragone devono avvenire in mercati (economicamente) comparabili.

Solo nel caso in cui le operazioni comparate siano poste in essere in Paesi economicamente similari, la comparazione sarà infatti ammissibile.

Fare invece, come tentava di fare il contribuente, il raffronto con operazioni (oltretutto già queste non similari, né per prodotti, né per qualità, né per spese accessorie eccetera) intercorse con Paesi europei, non rappresentava certo, ad avviso dell’ufficio, un attendibile metodo di confronto, essendo chiaro che i due metodi di determinazione dei prezzi non erano assolutamente comparabili.

La decisione della Commissione tributaria

La Commissione tributaria di Firenze ha dunque accolto in pieno le tesi dell’ufficio, affermando in particolare che "ai fini della decisione occorre considerare che il dato essenziale, derivante dall’art. 110 DPR 917/86, modificato dall’art. 1, co. 301, 302 e 303 della l. 286/2006, è che il legislatore considera con sfavore le operazioni economiche tra imprese residenti e imprese con sede in Stati con regimi privilegiati … L’esordio dell’art. 110 è significativo e inequivocabile, nel senso che le spese e gli altri componenti negativi in questione non sono ammessi in deduzione. Con l’effetto che la deduzione dei costi è ammessa in via di eccezione a due condizioni: che nella dichiarazione annuale dei redditi siano indicati separatamente le spese e gli altri componenti negativi deducibili e che si esibisca la prova che le imprese estere svolgano un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondano ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione. Ne consegue che, ove manchi anche una sola delle condizioni cui è subordinata l’eccezione, si applica la regola del divieto di cui all’art. 110, co 10 Dpr citato. Ciò premesso la società ricorrente, che ha intrattenuto rapporti commerciali con società residenti nei cd paradisi fiscali di Hong Kong e delle Filippine, ha omesso in via sistematica di annotare separatamente i costi di queste operazioni nelle dichiarazioni dei redditi 2002, 2003 e 2004, producendo, successivamente, alla notifica del verbale avvenuta il 13.02.2006, dichiarazioni integrative delle dichiarazioni carenti a distanza di vari anni. Ora, dichiarare, come fa la società ricorrente, che si è trattato di regolarizzare un errore formale costituisce affermazione in contrasto con il senso comune, “come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”. Giuridicamente l’omissione ha un rilievo sostanziale e comporta l’applicazione della regola generale come ha fatto correttamente l’Ufficio".

Tanto stabilito in ordine alla prima condizione della indicazione in dichiarazione, la Commissione tributaria provinciale è però andata anche oltre, affermando principi, ad avviso di chi scrive, ancor più rilevanti e innovativi (e condivisibili) in merito al concetto di “convenienza economica”.

Affermano infatti i giudici che "Secondo il ricorrente l’interesse economico discende dall’entità dei ricavi. Ma questo è solo un aspetto, che, come richiede la norma, va adeguatamente provato laddove nel caso di specie tale prova ha riguardato solo 3 degli 800 articoli commercializzati. Ed invero, se vi è un generale divieto di intrattenere rapporti commerciali con paesi a legislazione fiscale privilegiata l’onere probatorio, per essere esaustivo, deve riguardare anche gli altri elementi contrattuali, quali la qualità del prodotto, il prezzo praticato, le condizioni e termini di consegna. Inoltre e soprattutto, se vi è un generale divieto di rapporti commerciali con paesi denominati paradisi fiscali, cui fa riscontro una implicita liceità di rapporti con paesi a regime non privilegiato, la prova richiesta dalla legge deve riguardare la comparazione con prezzi e condizioni praticati da questi Paesi, ad esempio la Cina, che, come noto, presentano particolari condizioni di convenienza economica …".

Il contribuente veniva anche condannato alle spese di lite.

Il concetto, dunque, di convenienza economica comincia a trovare la sua specificazione, respingendo la giurisprudenza di merito la (facile) tesi per cui tale convenienza andrebbe valutata nel confronto tra il mercato italiano e quello del Paese a regime fiscale privilegiato.


Fonte: Agenzia Entrate - Giovambattista Palumbo

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