L’inammissibilità dell’atto di appello, stabilita dall’articolo 22, comma 3, del Dlgs 546/1992 (applicabile al giudizio di impugnazione in virtù del rinvio operato dall’articolo 53 dello stesso decreto), può essere dichiarata dal giudice a condizione che l’atto notificato alla parte sia “sostanzialmente” difforme da quello depositato in commissione tributaria. La mera divergenza “materiale” fra gli atti, invece, non produce automaticamente l’inammissiblità del ricorso.
Questo, in sintesi, il principio di diritto desumibile dalla pronuncia della Cassazione, la 25504, del 30 novembre scorso.

La vicenda
Il contenzioso è originato da tre distinti ricorsi, successivamente riuniti in appello, proposti avverso l’avviso di accertamento Ilor emesso nei confronti di una società nonché contro i conseguenti avvisi di accertamento Irpef emessi nei confronti dei soci.
I ricorrenti, vittoriosi nel primo grado di giudizio, sono risultati parzialmente soccombenti in Commissione tributaria regionale.
Contro tale decisione, le parti hanno proposto ricorso per cassazione eccependo, con il motivo principale di impugnazione, la nullità della sentenza per violazione dell’articolo 53, comma 1, in combinato disposto con l’articolo 22, comma 3 del Dlgs 546 del 1992.
In particolare, i contribuenti ritenevano viziata la sentenza della Ctr nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l'atto di appello notificato dall’Agenzia, nonostante esso fosse difforme da quello depositato presso la segreteria della Commissione tributaria, in quanto mancante di tre pagine.

La pronuncia della Cassazione
La Corte suprema ha respinto il predetto motivo di ricorso, confermando la legittimità della pronuncia di merito e condannando i ricorrenti alla refusione delle spese di giudizio.
Per i giudici di legittimità, in tema di contenzioso tributario, è vigente il principio secondo cui “…qualora l'atto di appello sia stato notificato in una copia mancante di una o più pagine, non va dichiarata automaticamente l'inammissibilità dell'impugnazione, in virtù della disposizione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 3, (esplicitamente richiamata, quanto all'appello, dall'art. 53, comma 2 del medesimo D.Lgs.)…”. Nel caso specifico si concretizza una “…mera incompletezza materiale…” che è ipotesi distinta e non necessariamente coincidente con la “…sostanziale difformità di contenuto…” sanzionata, quest’ultima, con l’inammissibilità dell’atto.

In questa circostanza, prima di dichiarare l’inammissibilità, sarà onere del giudice di merito, accertare concretamente se la predetta difformità “….abbia effettivamente impedito al destinatario della notifica la completa comprensione dell'atto e, quindi, leso il suo diritto di difesa”.
Nel caso in esame, secondo la Cassazione, i giudici di secondo grado hanno correttamente accertato ed enunciato i motivi per cui la suddetta carenza fosse da considerare non “sostanzialmente” rilevante. E’ stato, infatti, appurato che, nelle pagine mancanti, non erano stati svolti motivi di appello nuovi e diversi rispetto a quelli introdotti con l'atto di appello, bensì mancavano soltanto talune ulteriori argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di impugnazione. Prova ne era che, a seguito della notifica delle pagine mancanti, gli appellati non hanno, al riguardo, replicato.

Considerazioni
Con la sentenza in esame, la Corte suprema esprime adesione all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel processo tributario, le norme “sanzionatorie” che dispongono l’inammissibilità ovvero l’improcedibilità, vanno interpretate restrittivamente in quanto derogano alla regola generale per cui il naturale esito del processo è normalmente rappresentato dall’emissione di una decisione di merito (cfr Cassazione, sentenze 6391/2006 e 18088/2004).

Tale interpretazione recepisce i precetti della Corte costituzionale, secondo cui le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della “tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità” (cfr Corte costituzionale, sentenze 189/2000 e 520 del 2002).

Adattando i suddetti principi all’articolo 22, comma 3, risulterebbe legittimo applicare il rigore sanzionatorio dell’inammissibilità ivi espresso fintanto che la difformità tra l’atto depositato in commissione e quello notificato sia di tipo “sostanziale”, ossia sia tale da inficiare il diritto di difesa della parte che riceve l’atto. Ciò si verifica ogniqualvolta la divergenza si rifletta sugli elementi fondamentali del ricorso o dell’atto di appello rendendone, di conseguenza, incerti il petitum e la causa petendi.
Di contro, l’inammissibilità non potrà mai essere dichiarata se la difformità sia soltanto di tipo “materiale”. Secondo la sentenza in commento, tale ipotesi si verificherebbe allorquando la discordanza non sia rilevante ai fini della comprensione del tenore dell'impugnazione, ovvero quando l'atto di costituzione dell'appellato contenga, comunque, una puntuale replica ai motivi di ricorso contenuti nell'atto notificato.

Comunque, ai fini dell’inammissibilità, sarà compito del giudice indagare caso per caso, attraverso una valutazione di merito finalizzata al confronto fra l’atto depositato e quello notificato alla parte, la tipologia della predetta difformità.


Fonte: Agenzia Entrate

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