L’avviamento di un’azienda non può essere svalutato soltanto a causa della riduzione di valore dei singoli beni presi in considerazione per il suo calcolo iniziale, atteso che una simile diminuzione deve essere giustificata da un’autonoma e complessiva valutazione e non dall’applicazione automatica dello stesso metodo adottato in principio.
E’ questa l’interessante decisione assunta dalla Corte di cassazione, con la sentenza 26429 del 30 dicembre.

I fatti di causa
La Guardia di finanza aveva redatto un processo verbale di constatazione nei confronti di una società, con il quale aveva contestato la deduzione di quote di ammortamento dell’avviamento in misura superiore a quella consentita dall’articolo 68 del Dpr 917/1986 (ora, articolo 103 del Tuir).
La società, infatti, aveva acquistato dei rami d’azienda, la cui attività consisteva nel noleggio di veicoli, e aveva quindi pagato e iscritto in bilancio il relativo avviamento, calcolato in misura pari al valore dei contratti di locazione dei veicoli in corso alla data d’acquisto sino alla scadenza di ciascun contratto. Successivamente, però, vi erano state delle risoluzioni anticipate di taluni di detti contratti, che avrebbero comportato il mancato incasso dei relativi canoni di locazione su cui era stato calcolato l’avviamento.
In ragione di ciò, la società aveva svalutato il valore di quest’ultimo in misura corrispondente ai minori canoni di locazione relativi ai contratti risolti anticipatamente. Tale comportamento - secondo il contribuente - era non solo corretto ma anzi dovuto, visto che l’articolo 66, comma 3, del vecchio Tuir (ora, articolo 101) stabiliva che le perdite dei beni relativi all’impresa, commisurate al costo non ammortizzato di essi, sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi.

I giudizi di merito
L’Amministrazione finanziaria, sulla base di tale processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, notificava l’avviso di accertamento, con il recupero a tassazione degli ammortamenti considerati indeducibili, per violazione dell’articolo 68 del Tuir.
Il contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale, sostenendo che l’ufficio impositore aveva erroneamente considerato tale maggiore deduzione come ammortamenti effettuati in misura superiore a quella consentita dalla legge anziché valutarla correttamente alla stregua di una svalutazione dell’avviamento, dovuta alle perdite concernenti i beni in relazione ai quali esso era stato originariamente calcolato.
La Ctp, non condividendo la tesi del contribuente, ne rigettava il ricorso in relazione a tale motivo.

I giudici di secondo grado confermavano la pronuncia a favore dell’Amministrazione finanziaria.

Il contribuente proponeva, dunque, ricorso per cassazione, denunciando la violazione e falsa applicazione degli articoli del codice civile relativi alla redazione del bilancio di esercizio e, in particolar modo, dell’articolo 2426, numero 3), in base al quale “l'immobilizzazione che, alla data della chiusura dell'esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minore valore”.
In particolare, la società sosteneva che, in forza di tale norma, l’avviamento era stato correttamente iscritto in bilancio a un minor valore, atteso che quest’ultimo doveva considerarsi durevolmente inferiore a quello determinato in precedenza. Il contribuente affermava che “la svalutazione della posta costituita dall’avviamento a seguito del venir meno degli elementi originari di determinazione del valore era condotta obbligata, con insussistenza della violazione contestata”.

Con il secondo motivo di ricorso, poi, la società denunciava la violazione e falsa applicazione degli articoli 66 e 68 del Tuir, per aver i giudici d’appello erroneamente ritenuto applicabile alla fattispecie in oggetto l’articolo 68, che disciplina la deducibilità delle quote di ammortamento dell’avviamento, anziché l’articolo 66, che regola la materia delle minusvalenze patrimoniali, stabilendo che le perdite di beni relativi all’impresa, commisurate al costo non ammortizzato, sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi, che – secondo la ricorrente – sarebbero sussistenti e non contestati nel caso di specie.

La decisione della Cassazione
I Supremi giudici, investiti della questione, hanno ricordato, innanzitutto, che “l’avviamento, pur avendo un valore patrimoniale e come tale iscritto in bilancio, non è un bene né un diritto, bensì una qualità dell’azienda, e precisamente la capacità della stessa di dare profitti. Tale definizione deriva dal fatto che il valore della azienda è superiore al valore dei singoli beni che la compongono, e la differenza è data dalla gestione ed organizzazione unitaria dei fattori di impresa, che consentono una redditività più o meno elevata”.
Conseguentemente, la valutazione dell’avviamento comporta necessariamente un complessivo e strutturato esame dell’azienda, che comprende non soltanto i singoli beni di cui è costituita ma anche e soprattutto l’organizzazione di essi ai fini imprenditoriali.

Da ciò deriva che non esiste un metodo unico e universale di valutazione dell’avviamento, bensì una pluralità di modalità di determinazione, tra cui può menzionarsi quella residuale di cui all’articolo 2, comma 4, del Dpr 460/1996, usualmente considerata quale “soglia minima” in mancanza di validi metodi alternativi, e consistente nell’applicazione della percentuale di redditività alla media dei ricavi accertati o dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per tre.

La Corte suprema ha ricordato, poi, che, secondo una consolidata giurisprudenza, “la determinazione dell’avviamento costituisce l’oggetto di un giudizio di fatto rimesso al prudente apprezzamento dei giudici di merito ed immune da sindacato di legittimità se adeguatamente motivato” (Cassazione 2204/2006).

In considerazione di quanto sopra, i giudici hanno stabilito che l’assunto della ricorrente risulta errato, atteso che “dalla adozione di un metodo di calcolo dell’avviamento basato sul valore residuo dei contratti di locazione dei veicoli in atto al momento della cessione, in sé valido sia perché non contestato sia perché rientra nel novero dei molti criteri alternativi applicabili, non deriva una diminuzione di detto valore negli esercizi successivi sol perché alcuni degli elementi presi a base per il calcolo iniziale sono successivamente variati «in peius». Il valore dell’avviamento comunque determinato all’inizio non è infatti … legato alla sorte dei singoli beni aziendali, in quanto il criterio utilizzato inizialmente si esaurisce in detta valutazione, e non ha alcun rilievo per le sorti successive di detto valore”.

La Cassazione ha stabilito, quindi, che il valore di avviamento può certamente subire delle mutazioni nel tempo, ma tali variazioni devono essere frutto di una “valutazione autonoma e complessiva operata ex novo” e non una conseguenza dell’applicazione automatica del criterio inizialmente definito ai fini della valutazione del valore di avviamento originario. Infatti, è ben ipotizzabile che nel tempo siano intervenuti mutamenti nella combinazione dei fattori produttivi che determinano la redditività dell’azienda rispetto al momento d’acquisto ma ciò esclude ogni automatica validità del metodo di valutazione originariamente utilizzato.

In conclusione, pertanto, i giudici, ritenendo la sentenza impugnata conforme ai principi illustrati, nonché adeguatamente motivata, hanno respinto il ricorso della società, confermando, così, l’applicabilità alla fattispecie in oggetto dell’articolo 68 del Tuir, invece dell’articolo 66 invocato dal contribuente.


Fonte: Agenzia Entrate

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