La Corte di cassazione è stata chiamata a giudicare in merito al ricorso presentato da una Spa contro alcuni avvisi di accertamento emessi dall’Amministrazione finanziaria (al fine di recuperare le maggiori imposte Irpeg, Irap e Iva dovute per due annualità) a carico di un’altra società incorporata.

In sede di verifica è stata evidenziata la registrazione di fatture di acquisto di società “cartiere” per operazioni inesistenti di decine di milioni di euro, che avevano determinato un’indebita deduzione dei costi e detrazione dell’Iva.
I verificatori avevano scoperto il meccanismo contabile-fiscale, noto come “frode carosello”, tramite il quale un venditore comunitario cede beni alla società italiana, provvedendo alla fatturazione in esenzione Iva (articolo 38, Dl 331/1993), la società italiana (cartiera) fattura la successiva vendita applicando l’Iva che non viene da questa né dichiarata né versata all’Erario, mentre la società controllata, dal canto suo, provvede tranquillamente a detrarre l’imposta e a dedurre i costi ai fini Irpeg e Irap.

Il ricorso viene, quindi, affidato alla Ctp competente, che dichiara cessata la materia del contendere in relazione all’accertamento dell’Iva, per intervenuta definizione agevolata della lite e accoglie, però, parte dell’appello inerente l’accertamento dell’Irpeg e Irap, in quanto, a parere del giudice, l’Agenzia delle Entrate non aveva assolto l’onere della prova in merito all’insussistenza dei costi dedotti.

A seguito del ricorso in appello dell’Amministrazione finanziaria, la Commissione tributaria regionale riforma in toto quanto deciso in primo grado.
I giudici di merito affermano la piena validità degli accertamenti Irpeg e Irap perché fondati su legittima presunzione, accogliendo la tesi dell’Amministrazione finanziaria secondo cui ci si trovava dinanzi a fatture emesse da società “cartiere” alle quali manca, ovviamente, il presupposto soggettivo.
La società ricorre in Cassazione, argomentando l’istanza su ben quattordici motivi.

La decisione del Collegio
La Corte di cassazione, con la sentenza 23626 dell’11 novembre, ha chiarito che è lo stesso legislatore a precludere “l'ammissione in deduzione di costi e spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato (cfr. l'art. 14, comma 4 bis, 1. 537/1993, introdotto dall'art. 2, comma 8, 1. 289/2002) - la derivazione dei costi da attività integrante illecito penale, in quanto tale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell'attività istituzionale dell'impresa, non può, infatti, che comportare la rottura, già in termini oggettivi, del nesso di "inerenza" tra i costi medesimi e quell'attività (cfr. Cass. 4750/10, 1950/07)”.

Di conseguenza, prosegue il Collegio, “riguardo alla deducibilità dei costi, ciò comporta, sul piano della distribuzione dell'onere della prova, che, se l'Agenzia dimostri che l'operazione cui la fattura si riferisce è soggettivamente inesistente, compete al contribuente provare l'insussistenza di ipotesi penalmente rilevanti, in base alla regola, secondo cui, la ricorrenza dei presupposti di una deduzione, riducendo questa l'imponibile, va provata dal contribuente. Con la precisazione che tale prova non è sufficientemente fornita attraverso la dimostrazione del conseguimento della merce o del servizio e la documentazione del relativo pagamento, trattandosi di circostanze non decisive in rapporto al thema probandum: la prima in quanto insita nella nozione di operazione soggettivamente inesistente secondo la definizione sopra richiamata; la seconda perché relativa ad un dato di fatto che, di per sé, non garantisce l'estraneità del committente/cessionario ad ogni ipotesi criminosa (cfr. Cass. 17377/09)”.

Per meglio comprendere la decisione della Corte è bene raggruppare i quattordici punti su cui è stato basato il ricorso della società in alcune macro aree.
Nei primi motivi del ricorso in Cassazione, la società ha lamentato l’extrapetizione, ai sensi dell’articolo 112 cpc, secondo cui i giudici di merito avevano deciso oltremisura rispetto alle deduzioni presentate dall’Agenzia delle Entrate nell’appello: la sentenza, a parere del contribuente, si discostava dalla natura induttiva dell’accertamento.
Il Collegio ha cassato questi punti della motivazione chiarendo che l’accertamento effettuato era stato condotto secondo il metodo analitico-induttivo (articolo 39, comma 1, Dpr 600/1973) e, proseguendo nelle motivazioni, che “essendo espressione dell'imprescindibile potere del giudice di interpretare sia sul piano fenomenico sia su quello giuridico i fatti prospettati dalle parti, non configura extrapezione ex art. 112 c.p.c.: v. Cass. 10713/09, 16809/06, 15496/07”.

Il contribuente lamenta, successivamente, la non corretta applicazione delle norme in merito alla decisione del giudice di non permettere la deduzione dei costi attestati nelle relative fatture soggettivamente inesistenti violando, a parer suo, il principio della correlazione tra i costi e i ricavi previsti dall’articolo 75 del Tuir.
La Cassazione, in questo caso, fa un distinguo ben preciso in merito alle operazioni oggettivamente inesistenti e alle operazioni soggettivamente inesistenti.
Per quanto concerne il primo caso, viene in ausilio la copiosa e consolidata giurisprudenza (Cassazione, sentenze 12802/2011, 2598/2010, 2847/2010, 1023/2008, 26130/2007, 1727/2007), che fa ricadere l’onere della prova sul contribuente qualora l’Amministrazione finanziaria contesti indebite detrazioni dell’Iva e di costi fatturati apportando elementi semplicemente presuntivi, come la considerazione che quella tale società è una “cartiera”.
Per le operazioni soggettivamente inesistenti, riferendosi a soggetto diverso che ha effettuato la cessione dei beni o la prestazione, la detraibilità dell’Iva risulta essere esclusa, mancando in tal caso il presupposto principale.

La Corte di cassazione, nelle motivazioni, ha evidenziato come nel caso dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato nel documento contabile.
Dunque è previsto il versamento dell’imposta all’Erario ma non la sua detrazione.
Precisa il Collegio che il tributo deve essere estrapolato, scorporato dalla massa di operazioni effettuate e quindi “estraniata, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra iva "a valle" ed iva "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'art. 19 d.p.r. 633/1972”. L’imposta va versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili affinché venga compensata con l’imposta versata per gli acquisti.
La Corte di giustizia europea (cause riunite C- 439/04 e C-440/04 e cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03), inoltre, ha escluso che “l'esercizio del diritto alla detrazione IVA possa essere negato al committente/cessionario in buona fede, che, cioè, dimostri di non aver avuto (e non aver potuto avere, avendo in proposito adottato tutte le ragionevoli precauzioni) la consapevolezza di partecipare, con il proprio acquisto, ad illecito fiscale”.

Come detto in precedenza, è lo stesso legislatore italiano a non ammettere la deduzione dei costi o la detrazione dell’imposta indiretta per quelle spese riconducibili a fatti o atti qualificabili come reato perché l’attività illecita, per ovvi motivi, è del tutto estranea all’oggetto dell’attività svolta dall’impresa, quindi i costi e la relativa Iva non sono da considerarsi affatto inerenti e quindi deducibili o detraibili.

La Cassazione, nel respingere il ricorso presentato dalla società, ribadisce che, qualora l’Agenzia delle Entrate evidenzi che le fatture sono riferite ad attività inesistenti, spetta al contribuente provare, ai fini della deduzione dei costi sostenuti, che non sussiste alcun collegamento tra la propria attività e la fattispecie penalmente perseguibile. Al riguardo, non è sufficiente dimostrare la consegna della merce (o dell’eventuale servizio) o il relativo pagamento tramite l’apposito documento contabile.


Fonte: Agenzia Entrate

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