È imputabile del reato di dichiarazione fraudolenta l’imprenditore che vende fittiziamente beni “lavati”, ossia prima ceduti a società “cartiere”, meramente interposte, senza addebito dell’Iva e poi rivenduti agli effettivi clienti a prezzi inferiori al valore di mercato.
Questa la decisione della Corte di cassazione con la sentenza n. 16764 del 12 aprile.

La decisione
La controversia trae origine dalla sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’appello nei confronti del rappresentante legale pro tempore di una società esercente attività di commercio di prodotti di telefonia mobile, colpevole del reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
Contro la decisione, il condannato aveva proposto ricorso in Cassazione, deducendo il difetto di congrua motivazione in merito alla sussistenza della responsabilità penale per il reato contestato.
La Corte di cassazione ha dichiarato infondato il ricorso dell’imputato, condannandolo alla pena minima prevista dalla legge.

Nella breve sentenza in commento, i giudici della Suprema corte hanno esaminato il caso di una società di capitali, esercente attività di commercio di prodotti di telefonia mobile che, sulla base delle risultanze processuali, risultava aver indicato nelle dichiarazioni annuali, ai fini Iva e delle imposte dirette, elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, reato previsto all’articolo 2 del Dlgs 74/2000.
Attraverso l’esame analitico ed esaustivo delle risultanze processuali, i giudici di legittimità avevano constatato l’esistenza di operazioni fraudolente, consistenti in una prima vendita fittizia di telefoni, cosiddetti “lavati”, e poi nel successivo riacquisto dei beni, nello stesso giorno della vendita, da parte della medesima società.

Esaminando nello specifico le operazioni, la prima vendita era oggettivamente inesistente ed era effettuata a favore di società cartiere, ossia soggetti non operativi, appositamente creati, senza addebito dell’Iva in fattura.
A loro volta, le cartiere cedevano il bene a società terze, che i giudici definiscono “società capofila”, di fatto i clienti effettivi, a prezzi concorrenziali ben al di sotto del valore reale di mercato.
In altre parole, i beni erano ceduti dalla società - il cui rappresentante è stato condannato - attraverso l’interposizione di società cartiere, senza addebito dell’imposta, e poi da esse di nuovo venduti, questa volta con l’applicazione dell’Iva.

Nell’ambito di questo schema, le società cartiere, in quanto soggetti interposti al solo fine di realizzare l’evasione, non versavano l’imposta all’erario: ciò consentiva ai clienti effettivi non solo di poter usufruire di prezzi al di sotto del valore di mercato, giustificati dal mancato versamento dell’imposta, ma anche di disporre di beni “lavati”, ossia la cui relativa Iva risultava pulita dall’eventuale reato di evasione.
Lo schema fraudolento si concretava, infine, con il riacquisto da parte della prima società dei medesimi beni, nello stesso giorno della vendita: ed è con l’utilizzo delle relative fatture, secondo i giudici di merito e di legittimità, il momento di consumazione del reato di dichiarazione fraudolenta, realizzatosi mediante l’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
Il concatenarsi di tali operazioni, considerate fittizie, aveva così consentito, alla società imputabile del reato, di usufruire di costi deducibili e della detraibilità dell’Iva relativa, senza che l’imposta fosse mai stata applicata e quindi versata nelle casse dello Stato.


Fonte: Agenzia Entrate

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