Nella pratica fiscale quotidiana delle imprese di trasporto, le spese per carburanti sono di solito documentate in parte con schede carburante e in parte con fatture di “netting”, relative a contratti stipulati con società petrolifere.

Per quanto riguarda la disciplina delle schede carburante, il Dpr 444/1997 prevede che gli acquisiti effettuati presso gli impianti stradali di distribuzione debbano risultare da apposite annotazioni in una scheda (articolo 1, comma 1) da istituirsi per ciascun veicolo utilizzato nell’esercizio dell’impresa.

Tale scheda deve contenere, oltre agli estremi di individuazione del veicolo, la ditta, la denominazione o ragione sociale, ovvero il cognome e il nome, il domicilio fiscale e il numero di partita Iva del soggetto d’imposta che acquista il carburante.

In occasione di ogni rifornimento l’addetto alla distribuzione, con firma di convalida, deve certificare la data del rifornimento, l’ammontare del corrispettivo (al lordo dell’imposta sul valore aggiunto), nonché, anche a mezzo di apposito timbro, la denominazione o la ragione sociale dell’esercente l’impianto di distribuzione, ovvero il cognome e il nome se persona fisica, e l’ubicazione dell’impianto stesso (articoli 2 e 3). Inoltre, prima della registrazione nell’apposito registro Iva acquisiti, deve essere annotato sulla scheda il numero dei chilometri, rilevabile, alla fine del mese o trimestre, dall’apposito dispositivo esistente nel veicolo (articolo 4).

Tali disposizioni, dirette a facilitare l’accertamento del consumo del veicolo in rapporto ai chilometri percorsi, sono ispirate come sottolineato anche dalla circolare 205/1998, da motivi di cautela fiscale. La circolare, al punto 4, riepiloga peraltro la prassi amministrativa applicabile in materia, citando in particolare le risoluzioni del 1989 n. 571647 e n. 570767, come integrate dalla risoluzione 106/1996, laddove è prevista la possibilità di sostituire la scheda carburante con una particolare procedura di fatturazione posta in essere con l’utilizzo di un’apposita carta di credito e sulla base di appositi contratti di somministrazione. Si parla in questi casi di contratti di “netting”, contratti cioè di somministrazione fra il gestore e la compagnia petrolifera, relativamente ai rifornimenti effettuati direttamente dall’utente, che per il pagamento utilizza apposite “card aziendali”. Tali rifornimenti sono fatturati all’utente del veicolo, mentre il gestore provvede a “rifatturare” alla compagnia petrolifera l’operazione effettuata nei confronti del cliente.

Gli utilizzatori dei veicoli della società devono dunque compilare, mensilmente, un documento, numerato e datato, nel quale devono essere indicati anche i chilometri percorsi.

Anche tale disciplina serve a facilitare l’accertamento del consumo del veicolo in rapporto ai chilometri percorsi.

Laddove, perciò, le fatture riepilogative dei rifornimenti eseguiti con l’utilizzo di carte magnetiche non riportino il chilometraggio del mezzo rifornito, oppure, comunque, l’indicazione dei chilometri fornisca un quadro inattendibile, l’ufficio ne potrà disconoscere il relativo costo.

La necessità di una particolare cautela è del resto anche dovuta al fatto che, generalmente, con la carta intestata al singolo mezzo è possibile effettuare rifornimento anche per altri mezzi, rendendo il controllo ancora più complicato. Non esiste, infatti, di solito, un blocco automatico all’utilizzo della card, se non un codice pin di cui ogni autista è a conoscenza per poter effettuare il rifornimento.

L’ufficio a conferma dell’attendibilità dei dati indicati, potrà inoltre controllare e confrontare i chilometri percorsi dai vari mezzi e valutare se, pur tenendo conto dell’anzianità, dell’usura e del diverso utilizzo dei singoli mezzi, le differenze di consumo tra un mezzo e l’altro siano credibili.

Per tali motivi, la circolare 205/1998, in relazione a tali tipi di contratti, ha stabilito per l’utilizzatore finale anche l’obbligo di compilare un documento mensile numerato e datato, indicante il numero di targa del veicolo e i chilometri percorsi.

Quest’ultimo dato deve essere rilevato peraltro da apposito dispositivo dell’automezzo (il contachilometri) e l’utilizzatore non dovrà dichiarare i chilometri percorsi, ma dovrà semplicemente rilevare lo scostamento dalla rilevazione precedente rispetto a quella relativa al periodo considerato.

L’ufficio, quindi, laddove la documentazione non sia correttamente tenuta, potrà contestare l’inerenza del costo dedotto (il cui onere della prova è, come noto, a carico del contribuente).

Visto, infatti, che il diritto tributario soggiace a regole formali (che tuttavia assumono valore sostanziale) ben precise, in mancanza di documentazione di un costo (anche se, da un punto di vista prettamente economico, plausibilmente sostenuto), lo stesso, difettando il requisito di certezza (almeno nel quantum), non può essere dedotto.

Tale regola vale tanto nei confronti del piccolo commerciante che verso la grande società.

In tali casi, visto il tipo di attività delle imprese in esame, il contribuente non potrà sostenere che se le contestazioni dell’ufficio fossero fondate, si dovrebbe ritenere possibile che un’attività di trasporti operi senza praticamente sostenere costi per materia prima. Né sarebbe corretto ritenere, rifacendosi magari alla sentenza 17799/2007 della Cassazione, che, per la dimostrazione della deducibilità del costo, sia sufficiente la sola fattura.

La sentenza citata, infatti, riguarda un contenzioso in merito a operazioni inesistenti.

Ma, nel caso in esame, la contestazione dell’ufficio non mirerebbe a dimostrare tale tipo di violazione.

La Suprema corte, nella citata pronuncia, ha affermato che “l'onere di provare la veridicità delle fatture, per il contribuente, scatta soltanto quando gli organi di controllo fiscale adducono elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle fatture; nella specie, invece, stando alla motivazione della sentenza impugnata, non sono stati acquisiti elementi certi in base ai quali ipotizzare la falsità delle fatture e, quindi, non può essere invocata l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente”.

Tutto corretto, se si parla di contestazione di fatture false per operazioni inesistenti.

Scorretto è invece concludere che, sulla base di tale sentenza, si possa affermare che le fatture costituiscono elemento idoneo (e sufficiente) a documentare qualsiasi costo.

Come, al contrario, riconosciuto dalla costante giurisprudenza della Cassazione, “nel quadro dei generali principi che governano l'onere della prova (art. 2697 cod. civ.), in ipotesi di accertamento delle imposte sui redditi, spetta; 1) all'amministrazione finanziaria dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata (fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell'esistenza di un maggiore imponibile) e, 2) al contribuente l'onere della prova circa l'esistenza a) dei fatti che danno luogo ad oneri e/o a costi deducibili e b) del requisito dell'inerenza degli stessi all'attività professionale o d'impresa del contribuente” (vedi, da ultimo, anche la sentenza 16423/2008).

Quindi, senza una documentazione idonea a dare dimostrazione del costo dedotto, il relativo onere potrà essere ripreso legittimamente a tassazione.


Fonte: Agenzia Entrate

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