L’Amministrazione finanziaria è legittimata alla ricostruzione induttiva del volume d’affari del contribuente sulla base del criterio della media aritmetica dei prezzi ordinariamente praticati nel settore economico di riferimento quando la contabilità presenti gravi irregolarità che ne pregiudichino l’attendibilità. Il processo tributario non rientra tra i processi d’impugnazione-annullamento, bensì tra quelli d’impugnazione-merito, in quanto non diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma preordinato alla pronunzia di una decisione di merito.

A tali conclusioni è pervenuta la Cassazione con la sentenza n. 22453 del 5/9/2008.

La controversia

Un contribuente impugnava innanzi alla Ctp un avviso di rettifica Iva, con cui l’ufficio, sulla base del criterio della media dei prezzi praticati nel settore in cui lo stesso operava, aveva accertato un maggior volume d’affari ai fini Iva.

I giudici di primo grado accoglievano il ricorso; favorevole al contribuente era anche la sentenza di secondo grado.

L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso in Cassazione.

L’Amministrazione lamentava sia la circostanza che la Ctr aveva considerato inutilizzabile, ai fini della quantificazione del volume d’affari, in presenza di una contabilità irregolare, il criterio della media dei prezzi praticati nel settore di riferimento, sia il fatto che il giudice regionale, annullando l’atto di rettifica, aveva omesso di indicare e utilizzare un diverso metodo di calcolo ritenuto corretto, rispetto alla media utilizzata dall’ufficio.

La sentenza

La Suprema corte ha accolto il ricorso dell’Amministrazione, evidenziando come:

- una volta accertata l’irregolare tenuta delle scritture e in difetto di altri elementi, il valore delle cessioni possa essere ricavato in base alla media dei prezzi praticati dal contribuente o del settore economico di riferimento, non integrando una violazione di legge il ricorso alle percentuali medie di ricarico (né l’applicazione di un metodo di ricarico in luogo di un altro), in quanto nessuna norma di legge prescrive il criterio di calcolo da adottare (Cassazione, sentenza 14576/2001)

- una volta ritenuta inutilizzabile la media come calcolata dall’ufficio, la Ctr avesse omesso di indicare un diverso criterio di calcolo ritenuto corretto, con conseguente omessa motivazione della sentenza.

La sentenza, le cui conclusioni risultano in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, offre lo spunto per alcune considerazioni, sia con riguardo ai presupposti necessari ai fini della legittimità degli accertamenti induttivi, in materia di Iva (articoli 54 e 55 del Dpr 633/1972) (questione specificamente affrontata nel caso in esame) e di imposte sui redditi (articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973), in presenza di gravi irregolarità contabili, sia in relazione alla natura del processo tributario.

Quanto alla prima problematica, occorre evidenziare come da un’analisi giuridico–formale degli articoli 39, Dpr 600/1973, e 54 e 55, Dpr 633/1972, discenda che il criterio discretivo assunto dal legislatore con riguardo alla tipologia di accertamento che l’ufficio finanziario può concretamente adottare, è costituito dalla maggiore gravità delle irregolarità formali e dell’inattendibilità sostanziale delle scritture contabili. Tali circostanze consentono all’Amministrazione di ricorrere all’accertamento induttivo nell’ambito del quale è possibile utilizzare prove indirette, a differenza di quanto accade con il metodo analitico, dove è ammesso unicamente l’utilizzo di prove certe e dirette.

La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato, a tal proposito, diverse ipotesi in cui le gravi irregolarità contabili legittimano il ricorso dell’Amministrazione all’accertamento induttivo; basti pensare alla mancata conservazione delle bolle di accompagnamento, alla falsificazione delle medesime (posta in essere al fine di occultare l’omessa fatturazione di acquisto di merci), alla mancanza di pagine del registro inventari, all’omessa o incompleta redazione dell’inventario e delle rimanenze di magazzino (Cassazione, sentenze 11680/2001, 14576/2001, 8273/2003, 16724/2005).

In tali ipotesi che evidenziano, in sostanza, un’inattendibilità globale delle scritture contabili, oltre a quella d’inesistenza tout court delle scritture stesse, l’Amministrazione finanziaria può validamente prescinderne e procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva (Cassazione, sentenze 1022/1989, 11510/1993, 9097/2002, 12279/2007).

Ne discende che in tali casi l’ufficio è legittimato alla ricostruzione induttiva del volume d’affari del contribuente anche ricorrendo al criterio della media aritmetica dei prezzi ordinariamente praticati nel settore economico di riferimento del contribuente, nonostante le medie di settore non rappresentino un fatto noto storicamente provato, “dal quale argomentare con giudizio critico quello ignoto, ma costituiscano il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati che fissa una regola di esperienza, in base alla quale poter ritenere, statisticamente, meno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi, rispetto a quelli che si avvicinano” (Cassazione, sentenze 2005/26388, 1628/1995).

È da escludersi, peraltro, in presenza di gravi irregolarità, che il ricorso alla media dei prezzi praticati nel settore di riferimento o alle percentuali medie di ricarico, o l’applicazione di un metodo in luogo di un altro, ai fini della determinazione reddituale, possa costituire una violazione di legge, atteso che nessuna disposizione normativa prescrive il criterio di calcolo che debba essere adottato (Cassazione, sentenza 14576/2001).

La sentenza 22453/2008 offre inoltre spunti di riflessione in relazione alla natura del processo tributario e ai precisi poteri-doveri del giudice in presenza di un’impugnativa avverso un atto impositivo.

In base alla disciplina positiva del processo tributario si ritiene che il giudice, chiamato a pronunciarsi sui ricorsi proposti avverso gli atti impostivi, non deve limitarsi a dichiarare legittimi o ad annullare questi ultimi, ma deve emettere pronunce di merito, attributive del torto o della ragione, in funzione della corretta verifica operata circa il modo di essere del rapporto obbligatorio in contestazione.

Tale conclusione deriva dalla circostanza che il processo tributario, come più volte evidenziato dai giudici di legittimità (sentenze 7404/2001, 4280/2001, 16171/2000), nonostante sia strutturato come giudizio di impugnazione, non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento” ma tra i processi di “impugnazione-merito”, in quanto attraverso lo strumento processuale dell’impugnazione dell’atto si conferisce all’organo giudicante non solo la cognizione orientata all'eliminazione dell'atto (ipotesi di “impugnazione-annullamento”), ma anche la cognizione del rapporto tributario (“impugnazione-merito”), per cui il giudice adito ha il potere-dovere di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte, pena la carente e/o insufficiente motivazione della sentenza.

In particolare, secondo la Suprema corte il giudice deve fermarsi alla pronunzia di annullamento, senza esaminare il merito, unicamente nel caso di difetto assoluto di motivazione, anche in mancanza di una espressa comminatoria legale di nullità, considerato che la pronuncia di annullamento richiede che si versi in tema di vizi formali dell’atto impositivo o di atti prodromici su cui esso si fonda (Cassazione, sezioni unite, sentenze 5783/1988, 11273/1991, 7791/2001, 11217/2007).

Ne consegue che il giudice che ritenga invalido un avviso di accertamento per motivi non formali ma di carattere sostanziale, ritenendo fondate le censure del contribuente relative, ad esempio, al maggior imponibile o ai costi, non può limitarsi a una pronuncia costitutiva di annullamento dell’atto impositivo, come purtroppo spesso accade, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, “operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte” (Cassazione, sentenze 21184/2008, 11217/2007).


Fonte: Agenzia Entrate

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