La competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie, avendo a oggetto sia l’an che il quantum dell’obbligazione tributaria, comprende anche l’individuazione del soggetto tenuto al versamento dell’imposta o dei limiti nei quali esso, per la sua qualità, sia obbligato. Spetta quindi al giudice tributario pronunciarsi in ordine alla sussistenza o meno in capo a un soggetto della qualità di rappresentante legale della società nei cui confronti era stata emessa intimazione di pagamento.
Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 5001, depositata lo scorso 5 marzo 2007.
A seguito della notifica di un avviso di rettifica, l’ufficio Iva di Terni revocava il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto e dei relativi interessi ottenuto da una società a responsabilità limitata con sede in Roma.
In difetto della restituzione di quanto rimborsato, l’ufficio intimava il pagamento di quanto dovuto al soggetto che risultava amministratore unico e legale rappresentante della società medesima.
Quest’ultimo impugnava l’intimazione dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Terni sostenendo la propria estraneità alla società e invocando a suo favore il contenuto di una sentenza emessa al riguardo dal Tribunale penale di Roma.
L’adito giudice tributario rigettava il ricorso, sul rilievo che il contribuente non aveva fornito alcuna prova di non essere il legale rappresentante della società poiché il dispositivo della sentenza, depositato dal ricorrente, non riguardava la falsità della sua firma nell’atto costitutivo della società intimata, ma di una diversa società.
A sua volta, la Commissione tributaria regionale dell’Umbria riteneva infondato l’appello del contribuente rilevando, per quanto di interesse in questa sede, che questi non aveva fornito la prova della falsità delle varie firme apposte negli atti presentati all’ufficio, sia in sede amministrativa che contenziosa, quale legale rappresentante della società a carico della quale era stata emessa l’intimazione di pagamento.
La sentenza di secondo grado veniva impugnata in sede di legittimità: nel ricorso veniva dedotta la circostanza che la Ctr non aveva tenuto conto dell’effetto del giudicato penale di cui alla sentenza del Tribunale penale di Roma, che aveva, tra l’altro, dichiarato la falsità della firma del ricorrente apposta sull’atto costitutivo della società.
Nel giudizio dinanzi ai togati di piazza Cavour, il pubblico ministero sollevava la questione relativa al difetto di giurisdizione del giudice tributario, in considerazione del fatto che uno degli oggetti della contestazione era la qualità di legale rappresentante del contribuente rispetto alla società nei cui confronti era stata emessa l’intimazione di pagamento.
La Suprema corte ha rigettato tale eccezione, attraverso due passaggi interpretativi.
In prima battuta, la Cassazione ha ribadito che, in materia tributaria, la tutela giurisdizionale dei contribuenti "è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, concepita comprensiva di ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria".
Sul punto, la Corte ha richiamato le precedenti sentenze n. 7792 del 15 aprile 2005 (che ha affermato la sussistenza della giurisdizione tributaria in ordine alla determinazione delle somme dovute, in relazione a debiti del de cuius verso l’erario, dall’erede che abbia accettato con beneficio di inventario) e n. 7805 del 4 aprile 2006 (che ha riconosciuto di spettanza della giurisdizione tributaria la questione se l’assuntore di un secondo concordato preventivo sia tenuto al pagamento delle imposte sui trasferimenti inerenti al precedente concordato preventivo inserito nella medesima procedura concorsuale).
In secondo luogo, i giudici di legittimità, scendendo più nel dettaglio, hanno sottolineato che dal primo enunciato deriva che al giudice tributario compete anche l’individuazione del soggetto tenuto al versamento dell’imposta o dei limiti nei quali esso, per la sua qualità, sia obbligato.
Con riguardo al caso di specie, quindi, la Suprema corte ha ritenuto che correttamente la Commissione tributaria – ai fini della conseguente responsabilità d’imposta - aveva proceduto all’accertamento, in capo al contribuente, della qualità di rappresentante legale della società nei cui confronti era stata emessa l’intimazione di pagamento.
Da rilevare che l’enunciato principio di diritto non incide su quanto stabilito dal comma 3 dell’articolo 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, ai sensi del quale sono sottratte in modo assoluto alla cognizione del giudice tributario, tra le altre, le questioni sullo “stato” delle persone, di competenza del giudice ordinario ex articolo 9 del Codice di procedura civile.
Nell’espressione di status devono, peraltro, intendersi ricomprese – come chiarito dalla Corte di cassazione con sentenza n. 12366 del 14 dicembre 1993 – soltanto quelle qualità giuridiche "che si riferiscono alla posizione soggettiva dell’individuo nella sua veste di cittadino e di soggetto di diritti personali nell’ambito della comunità civile e di quella familiare" (tipico esempio della prima specie è lo status di cittadino; della seconda, gli status connessi ai vincoli di parentela, di affinità e di coniugio).
Tra le fattispecie di status, pertanto, non ricadono quelle – quali la qualità di amministratore di una società, per tornare al caso di specie – che non presentano le caratteristiche tipiche individuate dalla giurisprudenza e sulle quali, quindi, la cognizione del giudice tributario può esplicarsi senza limitazioni di sorta.
Fonte: Massimo Cancedda – Agenzia Entrate
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