Con la sentenza n. 17377 del 24 luglio 2009 la Corte di cassazione ha accolto il ricorso dell'agenzia delle Entrate ribaltando la decisione della Ctp, confermata dalla Ctr, e ha affermato che il pagamento della fattura e il relativo versamento dell'Iva non sempre danno diritto all'azienda di dedurre i costi sostenuti e che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l'imprenditore deve provare, non solo di essere estraneo all'operazione illecita, ma anche di essere ignaro della vicenda.

Il monito alle imprese ad accertarsi della provenienza della merce è contenuto nello sviluppo della motivazione, mediante la quale il giudice di legittimità ha ripercorso numerosi principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di fatture false, approdando a un primo importante punto fermo che gli ha poi permesso di elaborare questo nuovo orientamento giurisprudenziale, e cioè che tali principi vanno applicati anche nel caso di deduzione di costi basati su fatture false.

In sostanza, con la sentenza in esame la Cassazione invita le imprese ad accertarsi su tutti gli aspetti attinenti alla merce, imponendo in ipotesi di operazioni inesistenti la prova di estraneità più rigida, che implica assenza di conoscenza per l'esenzione da responsabilità.

La vicenda

La controversia nasce a seguito di notifica di un avviso di accertamento Irpeg / Ilor a una società, conseguente alla indebita deduzione di costi relativi a operazioni inesistenti. Avverso l'atto impositivo la destinataria proponeva tempestivo ricorso, che veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale e confermato in appello.

La Commissione del riesame, tra l'altro, riteneva infondata nel merito l'impugnazione per non avere l'ente impositore fornito alcuna prova relativa alla "collusione" della società nell'intestazione fittizia delle fatture contestate, confermando poi che i costi sarebbero stati realmente sostenuti.

Tale decisione è ora gravata con ricorso per cassazione, articolato in base a due motivi, con uno dei quali l'Amministrazione finanziaria lamenta che il giudice di secondo grado non abbia considerato:

•da un lato, la particolarità della fattispecie, caratterizzata da operazioni inesistenti documentate con fatture "soggettivamente false"

•dall'altro, che attenendo la contestazione a deduzione di costi, la prova idonea a dimostrare "l'effettiva e reale esistenza" delle operazioni corrispondenti doveva essere fornita dal contribuente.

Il giudizio di legittimità

Con la sentenza n. 17377/2009, la Cassazione accoglie il ricorso dell'agenzia delle Entrate evidenziando, innanzitutto, che "la nozione di operazione soggettivamente inesistente risulta elaborata dalla giurisprudenza, soprattutto riguardo all'Iva, mediante la formulazione di principi che, costituendo applicazione di regole generali nell'ambito del contenzioso tributario, possono essere ritenuti comuni anche con riguardo all'applicazione di altri tributi". Tale estensione costituisce la novità principale della sentenza.

Nel percorso argomentativo, sono poi evidenziati i seguenti postulati:

•l'emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da colui che ha eseguito la cessione o la prestazione va qualificata come operazione soggettivamente inesistente, la quale da un lato obbliga al versamento della relativa imposta (articolo 21, comma 7, Dpr 633/1972, che è l'unica norma relativa alle operazioni inesistenti nell'ambito della normativa Iva) e dall'altro non consente la detrazione al soggetto che non è stato controparte nel rapporto medesimo (ex articolo 19)

•la nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone, da un canto, l'effettività dell'acquisto dei beni da parte dell'utilizzatore, dall'altro la simulazione soggettiva, cioè il travisamento della fattura in quanto i beni acquistati provengono da soggetto diverso da quello che, cartolarmente, appare sul documento

•nei casi di operazioni soggettivamente inesistenti, il diritto alla detrazione dell'imposta versata in rivalsa al soggetto interposto non sorge comunque per il solo fatto dell'avvenuta corresponsione dell'imposta indicata (formalmente) sul documento, ma occorre altresì che il committente/cessionario fornisca a tal fine precisi riscontri, i quali tuttavia non devono esaurirsi nella (sola) prova dell'avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa, nonché dell'Iva riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze probatoriamente non decisive in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell'Iva e dei relativi possibili abusi (cfr Cassazione sentenze nn. 1950/2007 e 27574/2008).

In questo contesto, sotto il profilo probatorio, infine, la Suprema corte ha ricordato l'orientamento secondo cui, in tema di accertamento Iva, qualora l'Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni, tenendo presente, tuttavia, che l'Amministrazione non può limitarsi a una generale e apodittica non accettazione della documentazione del contribuente, essendo suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione (Cassazione, sentenza n. 21953/2007).

Le motivazioni della pronuncia

In un passaggio centrale della sentenza, la Cassazione ha evidenziato che il diritto alla deduzione da parte del committente/cessionario, nelle ipotesi considerate di fatture soggettivamente inesistenti, deve ritenersi condizionato alla circostanza di non avere avuto consapevolezza della falsità ideologica della fattura rilasciata a fronte dell'operazione, vale a dire della diversità fra il soggetto effettivamente cedente e quello indicato nella fattura, non essendo consentito riconoscere la legittimità della deduzione di un costo derivante da un'operazione posta in essere mediante un comportamento penalmente rilevante.

L'imprenditore ha, dunque, solo una chance per dedurre i costi di fatture soggettivamente inesistenti ma già pagate: dimostrare la sua assoluta estraneità ai fatti e la buona fede, intesa come inconsapevolezza della fittizietà dell'intestazione delle fattura.

In questo contesto la Corte attribuisce rilevanza preminente, quindi, anche all'elemento psicologico, che deve naturalmente coesistere con quello materiale, ossia con l'estraneità dell'operatore ai fatti (illeciti) posti in essere.

D'altronde, anche nella giurisprudenza comunitaria è condiviso l'orientamento che subordina il diritto alla detrazione Iva all'assoluta inconsapevolezza del cessionario di partecipare ad un acquisto costituente ipotesi di frode fiscale (cfr Corte di giustizia Ue, sentenze causa C-439/04 e causa C-354/03).

"Va infatti precisato", si legge ancora in motivazione, "che il riconoscimento della possibilità per il soggetto del tutto estraneo e inconsapevole della falsità della fattura di procedere in questi casi alla deduzione del costo relativo all'operazione appare discendere da principi della tutela e dell'affidamento e della certezza del diritto, che certamente trovano piena cittadinanza nel diritto tributario" (articoli 10 e 12, legge 212/2000 - Statuto del contribuente).

Ma a parte questa affermazione di principio che rischia di restare puramente teorica se non viene relazionata al principio dell'inerenza nel reddito di impresa, quale nesso funzionale che lega il costo alla vita dell'impresa, la Suprema corte sostiene che "sul piano dell'onere della prova" - ecco il passaggio chiave dell'assunto - "spetta all'ufficio finanziario che contesta la deduzione dimostrare che l'operazione cui essa si riferisce è soggettivamente inesistente, spetta invece al contribuente provare di non aver avuto consapevolezza della rilevata falsità, trattandosi di condizione necessaria al fine di ottenere la deduzione, in applicazione alla regola generale secondo cui, essendo il costo una voce che riduce il reddito imponibile, esso deve essere provato dal contribuente e tale prova si estende a tutte le condizioni richieste dalla legge ai fini del riconoscimento della deduzione".

Ma non è ancora tutto, in quanto tale prova non può essere validamente fornita dall'acquirente soltanto dimostrando che la merce è stata effettivamente ricevuta e ne è stato versato il corrispettivo, trattandosi di circostanze non concludenti (il convincimento è giustificato, in genere, in funzione del particolare meccanismo dell'imposta nonché del rilievo che dalla previsione dell'articolo 19 del Dpr 633/1972 e da quella di cui al comma 7 dell'articolo 21 si ricava che l'Iva corrisposta in relazione a operazioni inesistenti è dovuta da colui che ha emesso la fattura ed è detraibile da colui che ha corrisposto l'imposta in via di rivalsa).

Con la sentenza in esame la Suprema corte ha, pertanto, tratteggiato - attraverso una precisa opera di "assemblaggio" - una linea comune alle più recenti pronunce della sezione tributaria che si sono occupate della detrazione dell'IVA nelle ipotesi di operazioni ritenute inesistenti dall'Amministrazione finanziaria.

Fonte: Agenzia Entrate

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