L’onere di verificare che l’acquirente comunitario sia effettivamente un soggetto passivo di imposta è posto a carico del cedente. Quest’ultimo deve, dunque fornire la prova di aver effettuato le opportune ricerche per assicurarsi dell’esattezza dei codici trasmessi dal cessionario, sostanzialmente, al fine di impedire facili abusi nel settore delle cessioni intracomunitarie; cessioni effettuate in regime di non imponibilità Iva. Così si è espressa la Ctp di Firenze, con la sentenza n. 101 del 27 luglio scorso. Una pronuncia con cui i giudici toscani hanno affermato importanti principi in materia di conseguenze accertative in caso di inesattezza nella compilazione degli elenchi Intrastat.

Cessioni intracomunitarie ed elenchi Intrastat

Capita a volte di rilevare che società che effettuano operazioni intracomunitarie indichino, negli elenchi riepilogativi (Intrastat mensili), codici Iva di operatori intracomunitari risultanti poi, in realtà, sprovvisti di tale codice e considerati, quindi, acquirenti soggetti privati.

Nel caso in cui l’agenzia delle Entrate, ricorrendo all’interrogazione del sistema Vies (Vat information exchange system), constati che sono state effettuate cessioni intracomunitarie nei confronti di soggetti che, alla data delle fatture, erano cessati o il cui codice non era corrispondente al vero (considerato che, ai sensi dell’articolo 41 del Dl 331/1993, non sono imponibili le cessioni a titolo oneroso di beni trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro nei confronti di cessionari “soggetti d'imposta”), tali operazioni, laddove manchi il requisito soggettivo per la non imponibilità, devono considerarsi soggette a Iva, con obbligo da parte della società inadempiente di versare l'imposta relativa, nonché le corrispondenti sanzioni.

Oltre, dunque, alla violazione per incompleta, inesatta o irregolare compilazione degli elenchi Intrastat, è sanzionata l’omessa fatturazione di operazioni imponibili (rilascio di fattura senza indicazione dell’imposta), l’irregolare tenuta dei registri Iva (per l’omessa indicazione dell’imposta afferente le cessioni nei confronti dei soggetti privati), nonché la mancata esposizione nella fatture emessa dell’imposta relativa a titolo di rivalsa, ex articolo 18 del Dpr 633/1972.

Tali tipi di violazioni, peraltro, non costituiscono mere irregolarità formali.

Come chiarito anche con la circolare n. 77/E del 2001, infatti, possono essere in tal modo qualificate solo le violazioni che non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell'imposta e sul versamento del tributo, e che, comunque, non pregiudicano l'attività di controllo dell'Amministrazione finanziaria (cosa che accade, invece, nel caso in cui sia indicato un codice non corrispondente al vero).

Dal coordinamento degli articoli 41, comma 1, e 50, commi 1 e 2, del Dl 331/1993 si desume, del resto, che la non imponibilità Iva è espressamente subordinata a determinati e inderogabili requisiti di legge. Tra questi figurano, da un lato, la comunicazione da parte dell'acquirente comunitario del proprio codice identificativo; dall'altro, l'avvenuta “conferma”, da parte dell'ufficio, della veridicità del dato stesso.

In altri termini, il cedente nazionale, al fine di usufruire del beneficio della non imponibilità, è sempre tenuto a controllare la correttezza dei dati identificativi dell'acquirente.

La previsione della necessità della “conferma” rappresenta un necessario e inevitabile presidio contro gli abusi nel settore delle cessioni intracomunitarie, in particolare nel caso in cui la società non fornisca la prova di aver effettuato tutte le opportune ricerche per assicurarsi dell’esattezza del codice trasmesso dal cessionario.

Al fine di impedire, dunque, cessioni effettuate in regime di “non imponibilità” Iva a operatori che non sono assoggettati all'imposta (in quanto soggetti privati), l'articolo 50, comma 1, del Dl 331/1993, ha posto a carico del cedente l’onere di verificare che l’acquirente comunitario sia effettivamente un “soggetto passivo di imposta”, richiedendo (allo stesso) il numero di identificazione Iva attribuito dallo Stato membro di appartenenza. La condotta anche solo omissiva è da considerarsi censurabile, tanto che il legislatore prevedeva anche la rilevanza penale (articolo 4, comma 1, della legge 516/1982) del comportamento di chiunque emettesse o utilizzasse fatture o documenti equipollenti relativi a operazioni intracomunitarie indicanti numeri di identificazione diversi da quelli veri, in modo che ne risultasse impedita l'identificazione dei soggetti cui si riferivano.

In conclusione, la non imponibilità degli scambi intracomunitari è subordinata all'adempimento di precisi obblighi, quali la comunicazione del numero di identificazione attribuito dallo Stato membro di appartenenza e la correlata e necessaria conferma della validità di tale dato.


Fonte: Agenzia Entrate

0 commenti:

 
Top