A seguito della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 188 del 13 agosto 2011, è in vigore da tale data il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (cd. "Manovra bis") che, nel dettare "Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo", al Titolo III, rubricato "Misure a sostegno dell'occupazione", mediante le previsioni dell'art. 12, ha introdotto nel codice penale due nuovi articoli, destinati a punire pesantemente il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro.

A seguito della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 188 del 13 agosto 2011, è in vigore da tale data il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (cd. “Manovra bis”) che, nel dettare “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, al Titolo III, rubricato “Misure a sostegno dell’occupazione”, mediante le previsioni dell’art. 12, ha introdotto nel codice penale due nuovi articoli, destinati a punire pesantemente il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro.

Di sicuro rilievo e interesse, oltre alla circostanza che dopo decenni il diritto del lavoro torna ad essere protagonista di una disposizione inserita nel codice penale, è la collocazione della nuova fattispecie delittuosa che viene introdotta nel Titolo XII del Libro II del codice che annovera i “delitti contro la persona”, più precisamente all’interno della Sezione I, rubricata “Dei delitti contro la personalità individuale”, del Capo III, intitolato “Dei delitti contro la libertà individuale”, con ciò riconoscendo assoluto valore, in ottica costituzionale, alla tutela della persona del lavoratore e della sua libertà.

Passando ai contenuti normativi, il nuovo art. 603-bis cod.pen. stabilisce espressamente:



“1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

2. Ai fini del primo comma, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze:

1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

3. Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”.



Nelle more delle eventuali modifiche che potrebbero essere apportate al decreto-legge in sede di conversione possono già evidenziarsi alcuni elementi essenziali della nuova ipotesi di delitto da cui trarre anche specifiche indicazioni operative alle quali gli operatori e il personale ispettivo possono attenersi con riferimento alle attività investigative relative a fatti di intermediazione e interposizione illecita posti in essere a far data dal 13 agosto 2011.

In primo luogo occorre evidenziare che il delitto di cui all’art. 603-bis cod.pen. non abroga, né sostituisce in alcun modo le contravvenzioni di cui agli artt. 18 e 28 del D.Lgs. n. 276/2003[1]. La nuova fattispecie delittuosa introdotta dal decreto-legge n. 138/2011, infatti, sembra destinata ad occupare uno spazio residuale nel contesto delle indagini ispettive proprie degli uffici territoriali del Ministero del Lavoro, essendo mirata a punire soltanto le ipotesi più gravi e manifestamente odiose di intermediazione abusiva e illecita, al contrario essa apparirà come ipotesi di reato prevalente in alcuni ambiti regionali, facilmente individuabili, per le peculiarità proprie dei rispettivi territori e delle dinamiche sociali in essi insistenti[2].


[1] Conformi le prime indicazioni offerte dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Modena con nota n. 8118 del 22 agosto 2011. Contra C. Casadei, Carcere per i “caporali”, in IlSole24Ore, 18 agosto 2011, 10, che ritiene abrogati i reati del D.Lgs. n. 276/2003.

[2] Il riferimento, implicito nel testo, è a quelle realtà regionali che già hanno formato oggetto in periodi recenti di una speciale campagna di contrasto al sommerso e al caporalato in agricoltura e in edilizia per iniziativa del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, congiuntamente a Inps, Inail, Carabinieri e Guardia di Finanza: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.

In chiave probabilmente più simbolica che strutturale, il decreto-legge n. 138/2011 intende mostrare l’impegno del Legislatore nel contrasto dell’odioso fenomeno del ‘caporalato’[1] che è una forma di drammatico sfruttamento del lavoro in agricoltura e in edilizia presente in non poche aree del Paese[2]. Si tratta del fenomeno criminale in cui un ‘caporale’, di norma alle prime luci dell’alba, si reca nelle periferie delle grandi aree urbane o in angoli poco frequentati di città e paesi per ‘reclutare’ la manodopera giornaliera da condurre nei campi o nei cantieri. Il contrasto al caporalato è un punto fermo della legislazione in materia di lavoro, che sanziona penalmente, ancor prima della introduzione dell’ipotesi di delitto ora in esame, sia il ‘caporale’ che i datori di lavoro che sfruttano i lavoratori ‘reclutati’. In particolare la riforma Biagi nel 2003 ha introdotto due fattispecie di reato che concorrono entrambe nella generalità delle situazioni riconducibili al caporalato: da un lato l'intermediazione illecita (il caporalato di primo livello, come ad esempio la ‘raccolta’ nei cosiddetti ‘smorzi’ nel Lazio), dall’altro l’interposizione illecita e fraudolenta (il caporalato di secondo livello, cioè l’effettivo impiego dei lavoratori ‘reclutati’ dal caporale da parte degli imprenditori edili ed agricoli).

D’altro canto il ‘caporalato’ assume una veste del tutto particolare con riguardo all’altra situazione di grave sfruttamento del lavoro (spesso contestuale al ‘caporalato’ vero e proprio), vale a dire il perverso fenomeno delle cooperative cd. ‘spurie’, di quelle società cooperative che forniscono in appalto servizi di natura diversa alle imprese, spesso senza alcuna specializzazione o differenziazione di identità sociale, con speciale riguardo alla fornitura di manodopera temporanea, non di rado di nazionalità extracomunitaria, utilizzata nel ciclo produttivo dell’impresa committente[3].


[1] Tale impegno è stato già fatto proprio da almeno un triennio dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La Direttiva Sacconi del 18 settembre 2008 in materia di ispezioni ha individuato nel caporalato una delle priorità di intervento delle Direzioni provinciali del lavoro, così come confermato nel Piano straordinario di vigilanza per l’agricoltura e l’edilizia del 28 gennaio 2010 e nel Piano triennale “Liberare il lavoro per liberare i lavori”, adottato dal Consiglio dei Ministri del 30 luglio 2010, che ha segnalato come “doveroso e possibile l'obiettivo della 'tolleranza zero' per le forme peggiori di sfruttamento del lavoro”. Tanto intensa è stata l’azione ispettiva su questo fronte negli ultimi anni che nel 2010 sono stati rilevati 15.907 illeciti penali relativi ai fenomeni interpositori, a fronte dei 6.649 del 2009, con un incremento in valore assoluto del +139% (nel 2008 erano 1.782).

[2] Cfr. M. Tiraboschi, P. Rausei, Legislazione solida e rigorosa, in IlSole24Ore, 22 aprile 2011, 24.

[3] Sotto questo profilo la firma del “Protocollo sulla Cooperazione”, avvenuta il 10 ottobre 2007, ha esteso l’azione del “Protocollo sul Welfare” del 23 luglio fra Governo e Parti sociali, nel punto in cui si annotava una primordiale intesa sul mondo della cooperazione segnalando che l’intervento governativo nel settore cooperativo, doveva concentrarsi in primo luogo sulle cosiddette cooperative ‘spurie’ e sugli inevitabili effetti di dumping contrattuale provocato da queste nel sistema di relazioni contrattuali con le imprese. La preoccupazione riguarda il fatto che le cooperative “spurie” finiscono per aggiudicarsi un numero sempre più significativo di appalti, incidendo pesantemente sulla competitività sana nella cooperazione, in ragione della rincorsa “al ribasso” per la riduzione dei costi dei servizi, fomentata da tali cooperative, a danno dei propri lavoratori e del sistema nel suo complesso.

La fattispecie di reato prevista dall’art. 603-bis cod. pen. che qui si annota, a ben guardare, risulta costruita con una serie predeterminata di vincoli normativi che ne definiscono l’ambito concreto di applicazione.
Potrà rilevarsi il delitto di intermediazione con sfruttamento soltanto qualora gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria abbiano individuato specificamente la sussistenza dei seguenti due elementi oggettivi:

una attività (anche non di tipo imprenditoriale) che sia effettivamente strutturata ed organizzata per la intermediazione di manodopera;
le circostanze di un reclutamento di lavoratori ovvero della organizzazione di una specifica o di una serie di attività lavorative che siano appositamente caratterizzati da sfruttamento, esercitato attraverso violenza, minaccia o intimidazione.

D’altra parte l’individuazione della condizione di sfruttamento deve avvenire in base alle esemplificazioni offerte, si ritiene in modo orientativo e non certamente quale elenco tassativo, dal secondo comma dello stesso art. 603-bis cod. pen. che sembra chiamato a completare la definizione del precetto normativo, identificando quattro differenti situazioni relative, rispettivamente, a: modalità di retribuzione dei lavoratori; violazione della normativa in materia di tempi di lavoro e di riposo; violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, situazioni di alloggio degradanti.

Più dettagliatamente la norma prevede che per le sole finalità della identificazione e della punizione del reato di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera rappresenta un “indice di sfruttamento”, vale a dire che ha natura di indicatore della possibile realizzazione del delitto de quo, il sussistere, obiettivamente evidenziato ed accertato in sede di vigilanza, nell’espletamento delle attività investigative attivate, di almeno una (“una o più” secondo il dettato normativo) delle situazioni oggettive appresso evidenziate.

Anzitutto il rilievo di una sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Il primo degli indicatori selezionati dal Legislatore attiene, dunque, al valore patrimoniale effettivamente riconosciuto alla prestazione lavorativa resa. Potrà aversi sfruttamento quando l’intermediario abbia retribuito i lavoratori in misura del tutto non corrispondente ai livelli retributivi sanciti dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro. La norma non fa alcun riferimento ai criteri di rappresentatività della contrattazione collettiva, pertanto la retribuzione corrisposta dovrà essere parametrata al contratto collettivo nazionale di lavoro che reca i minimi retributivi meno elevati al fine di dedurne quella “palese difformità” richiesta dalla disposizione normativa. In secondo luogo lo sfruttamento potrà risultare dalla corresponsione di una retribuzione comunque sproporzionata con riguardo alla quantità e alla qualità del lavoro effettivamente prestato dai lavoratori intermediati. In questo caso non si ha riguardo a parametri oggettivi esterni al rapporto di lavoro ma direttamente alla tipologia di attività lavorativa resa, che viene ad essere “misurata” sia per gli aspetti quantitativi che per quelli (dai contorni assai più incerti e indeterminati) qualitativi.

Il secondo indicatore di sfruttamento si concentra sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, prendendo a riferimento “la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie”. Di tutta evidenza appare, dunque, come questo criterio rivelatore sia connesso alla contestuale rilevazione da parte degli investigatori della sussistenza di illeciti (amministrativi) in materia di tempi di lavoro e tempi di riposo. Peraltro il connotato di “sistematicità” individuato dall’art. 603-bis, comma 2, n. 2), cod. pen. impone che le violazioni siano state rilevate con caratteristiche proprie di ripetitività costante, quasi ad indicare un ordinario modo di svolgimento dell’attività lavorativa in contrasto con i diritti dei lavoratori al riposo e all’astensione obbligatoria.

Con il terzo indicatore la norma intende dare specifico peso al comportamento antidoveroso del datore di lavoro rispetto agli obblighi prevenzionistici a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, indicando quale elemento rivelatore dello sfruttamento “la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale”. Qui non rilevano il numero e la ricorrenza delle condotte illecite in materia prevenzionistica, ma il mero fatto che tali violazioni sussistano e la circostanza che esse espongano i lavoratori reclutati a pericolo per la loro salute, per la loro sicurezza ovvero per la loro incolumità personale. La finalizzazione specifica delle violazioni riguardo al pericolo incorso non sembra formare oggetto di valutazione distinta, apparendo piuttosto detta finalizzazione insita, quasi in re ipsa, nella fattispecie illecita rilevata per la violazione delle disposizioni in materia di protezione e prevenzione dei lavoratori per lo svolgimento delle prestazioni lavorative in sicurezza[1].

Da ultimo, riguardo alla elencazione normativa, il quarto criterio rivelatore interessa ancora una volta lo svolgersi della prestazione lavorativa con riferimento alla “sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti”. Questo ultimo indicatore, dunque, concerne specificamente le condizioni lavorative generali dei lavoratori reclutati, sia per quanto attiene ai metodi di sorveglianza che alle modalità di espletamento del lavoro, che non debbono avere caratteristiche di ‘particolare degrado’. Analogamente il Legislatore si preoccupa, con implicita attenzione per i fenomeni di interposizione illecita che interessano i lavoratori extracomunitari, delle situazioni alloggiative che parimenti non devono risultare particolarmente degradanti. D’altra parte l’attributo che qualifica le condizioni lavorative “particolarmente degradanti” individuato dall’art. 603-bis, comma 2, n. 4), cod. pen., appare talmente vago e generico da potersi senza dubbio considerare una clausola elastica ed aperta.

In conclusione circa l’analisi degli indici di sfruttamento deve evidenziarsi, complessivamente, che tutte e quattro le situazioni annoverate dalla norma possono essere rilevate non già nel momento stesso in cui il reato si realizza e si consuma (e cioè quando avviene l’azione del reclutamento e della intermediazione), ma soltanto in un momento successivo, vale a dire quando siano poste in essere ulteriori condotte penalmente rilevanti da parte dell’utilizzatore – del tutto estraneo dal reato di che trattasi, il quale si sia rivolto all’intermediario sfruttatore. Inoltre ciascuno degli indicatori annotati appare, per sé solo considerato, indice di una interposizione fraudolenta utile a contestare il reato di cui all’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003, in qualsiasi forma esso si venga a manifestare (nelle forme di un appalto di servizi piuttosto che di una somministrazione di manodopera).


[1] Riguardo alla struttura di pericolo e alle caratteristiche del vigente sistema sanzionatorio in materia di salute e sicurezza sul lavoro sia consentito fare rinvio a P. Rausei, Il riordino dell’apparato sanzionatorio: la gestione della sicurezza, in M. Tiraboschi, L. Fantini (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d.lgs. n. 106/2009). Commentario al decreto legislativo n. 81/2008 come modificato e integrato dal decreto legislativo n. 106/2009, Giuffré, Milano, 2009; P. Rausei, Sistema sanzionatorio e vigilanza nel TU sicurezza dopo il “correttivo”, in Isl, 2009, 10, Inserto; P. Rausei, Vigilanza e sanzioni nel Testo Unico sicurezza sul lavoro, Ipsoa, Milano, 2009.

Tornando all’elemento oggettivo del delitto in esame, invece, occorre evidenziare come lo sfruttamento debba essere puntualmente connotato da un agire illecito dell’intermediario (cd. ‘caporale’) che si caratterizza per un duplice aspetto rilevante sia sul piano della condotta che su quello della volontà dell’autore del reato:

l’esercizio nei confronti dei lavoratori reclutati di violenza, minaccia, o intimidazione;
l’approfittamento dello stato di bisogno o dello stato di necessità dei lavoratori.
Violenza, minaccia, intimidazione

Con riguardo al primo dei due connotati che fondano l’oggettivo sussistere della fattispecie di reato in esame occorre riferirsi all’ordinario ambito penalistico dei concetti richiamati, per cui si avrà:

- violenza, in una nozione bidimensionale, sia quando i lavoratori sono vittime di qualsiasi forma di estrinsecazione di forza fisica ovvero di costrizione anche soltanto psicologica[1]; se apparirà piuttosto evidente la presenza aggressiva fisica, l’inclusione nel concetto di violenza dell’effetto costrittivo consente di tutelare il principio di sufficiente lesività della condotta illecita dello sfruttamento mediante intermediazione; ne consegue, quindi, che la violenza potrà consistere nella causazione a carico dei lavoratori reclutati di uno stato di costrizione che può realizzarsi anche fisicamente sulle vittime o con comportamenti aggressivi, manifestati nella specie della vis absoluta (coazione assoluta)[2];

- minaccia quando per effetto di una vis compulsiva (coazione relativa) i lavoratori reclutati sono vittime di una costrizione esercitata attraverso una forte spinta verso un determinato comportamento (consentire lo sfruttamento della propria attività lavorativa) sotto la pressione (di natura psichica o anche fisica) di un male o di una situazione di pericolo attuale, che non elimina possibilità alternative di comportamento, ma produce sulla volontà del lavoratore intermediato un perturbamento psichico o un metus; d’altronde anche la scelta razionale del lavoratore di evitare il male minacciato consentendo il proprio sfruttamento non esclude la sussistenza della minaccia[3];

- intimidazione, in senso più ampio, con una declinazione concettuale decisamente omnicomprensiva, in modo da ricomprendere qualsiasi minaccia diretta, indiretta o anche soltanto potenziale esercitata nei confronti dei lavoratori reclutati che possa determinare una ingerenza indebita rispetto al libero e volontario svolgimento della loro attività lavorativa.

Stato di bisogno e di necessità

Anche con riferimento al secondo elemento caratterizzante della condotta di sfruttamento della manodopera reclutata deve aversi attento riguardo alla portata definitoria e valoriale dei concetti utilizzati dal legislatore così come noti e applicati nel contesto penalistico, per l’effetto si potrà rilevare:

· lo stato di bisogno quando l’autore del reato di intermediazione illecita abbia reclutato un lavoratore che si trovi nella situazione personale di una qualsiasi esigenza da soddisfare rispetto alla quale viene prospettato un evento con conseguenze negative sulla situazione attuale del lavoratore o una perdita di qualsiasi natura (patrimoniale, morale o fisica), a causa di un mutamento in peius della situazione personale o del pericolo del protrarsi di una situazione di sofferenza già in atto[4];

· lo stato di necessità , ricostruendone la nozione in ambito sistematico sulla base delle previsioni contenute, a tutt’altro fine ben è vero, nell’art. 54 cod. pen., quando il lavoratore reclutato si venga a trovare nella necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile[5].

Approfittamento

Nondimeno l’esistenza di uno stato di bisogno o di necessità non sono sufficienti a delineare l’illecito sfruttamento dei lavoratori essendo altresì necessario l’agire dell’intermediario nel senso di un “approfittamento” di quello stesso stato. L’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità costituisce, in uno con lo sfruttamento dei lavoratori, il nucleo centrale della fattispecie criminosa, nonché l’espressione più significativa del disvalore della condotta antidoverosa per l’evidente stigmatizzazione etico-sociale del comportamento[6]. Da qui, in base al portato normativo e giurisprudenziale in materia penale, potrà dirsi punibile chi approfitta della intermediazione sfruttando ovvero utilizzando indebitamente a proprio vantaggio la posizione di inferiorità dei lavoratori reclutati per il loro stato di bisogno o necessità.


[1] Si vedano in dottrina: E. Mezzetti, Violenza privata e minaccia, in Digesto Disc. Pen., Torino, 1999; G. De Simone, Violenza in generale (Diritto penale), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 881 ss.; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, Bologna, 1997, 281 s. A. Pecoraro-Albani, Il concetto di violenza nel diritto penale, Milano, 1962; A. Pecoraro-Albani, Costringimento fisico in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 243 ss.; G. Neppi Modona, Sulla posizione della “violenza” e della “minaccia” nella struttura delle fattispecie criminose, Ridpp, 1964, 522 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, Padova, 1995, 323 secondo cui: «la violenza costituisce, assieme alla frode, una delle forme più tipiche ed originarie di aggressione degli altrui beni, rispondendo esse alle due primarie regole del non uccidere e del non ingannare».

[2] Sotto il profilo della finalità nel delitto di cui all’art. 603-bis cod. pen. si ha una ipotesi di violenza-mezzo, intesa come direttamente funzionale al raggiungimento dello scopo proprio del reato che consiste nello sfruttamento dei lavoratori reclutati; la violenza rileva, infatti, come modalità di realizzazione della condotta in considerazione della esplicazione della forza fisica o di altri mezzi alternativi di costringi mento; F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona cit., 325. Cfr. anche F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Milano, 1996, 135.

[3] Cfr. in dottrina: E. Mezzetti, Violenza privata e minaccia cit.; V. Manzini, Il tentativo nel delitto di minaccia, Adpp, 1939, 937; G.D. Pisapia, Attività esecutiva frazionabile e tentativo nel reato di minaccia, Ridp, 1940, 361; F. Dassano, Minaccia (diritto penale), in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, 334; V. Pirrone, Minaccia susseguente ad un evento antigiuridico, Giur. mer., 1978, II, 302.

[4] Si veda C. F. Grosso, Usura (dir. pen.), in Enc. dir., XLV, 1992, 1143. In giurisprudenza, sul portato delle decisioni relative al delitto di usura, vedi: Cass. Pen., Sez. II, 8 marzo 2000, in Giur. It., 2001, 566, secondo cui: “il concetto di ‘stato di bisogno’ deve essere inteso in senso oggettivo quale mancanza di mezzi diretti a sopperire esigenze primarie”; Cass. Pen., Sez. II, 23 novembre 1998, in Foro Ambrosiano, 1999, 439, secondo cui “ai fini dell’integrazione dello stato di bisogno, non è richiesta una necessità tale da annientare in modo assoluto la libertà di scelta del soggetto passivo, anche se si deve fare pur sempre riferimento ad una situazione che limiti la volontà negoziale del medesimo soggetto, il quale si determina a contrarre in condizioni di inferiorità psichica che viziano il suo consenso”.

[5] Vedi: E. Mezzetti, Stato di necessità , in Digesto Disc. Pen., Torino, 1997; G. Azzali, Stato di necessità (Diritto penale), in NN.D.I., XVIII, Torino, 1971, 356 s.; C. F. Grosso, Necessità (dir. pen.), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 882 s.; M. Romano, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità , Ridpp, 1991, 40 s. In giurisprudenza, sul portato valoriale delle decisioni relative al delitto di usura, vedi: Cass. Pen., Sez. III, 26 ottobre 2006, n. 2841, secondo cui “La situazione di necessità va intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, coincide con la definizione di ‘posizione di vulnerabilità’ indicata nella decisione quadro dell'Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani”; Cass. Pen., Sez. II, 12 ottobre 2005, n. 40526, per la quale “lo stato di bisogno in cui deve trovarsi la vittima può essere di qualsiasi natura, specie e grado, e quindi può essere determinato anche da debiti contratti per il vizio del gioco d'azzardo, non essendo richiesto dalla norma incriminatrice alcun requisito”.

[6] Con riferimento al reato di usura, nelle diverse formulazioni dell’art. 644 cod. pen., cfr. M. Bellacosa, Usura, in Digesto Disc. Pen., Torino, 1999; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, II, Delitti contro il patrimonio, Bologna, 1992, 173; A. Manna, La nuova legge sull’usura, Torino, 1997, 10, che insiste sulla funzione di stigmatizzazione etico-sociale dell’approfittamento dello stato di bisogno.

Quanto alla struttura del reato, dunque, l’intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera si configura quale delitto di natura sussidiaria (l’incipit stesso della norma – “salvo che il fatto costituisca più grave reato” – denuncia tale caratteristica che consente l’imputazione per tale delitto esclusivamente ove non sussistano, con riferimento ai fatti penalmente rilevanti, delitti di maggiore gravità di fronte ai quali la nuova ipotesi di reato risulta cedevole) e si caratterizza come reato di azione (necessita una condotta attiva da parte dell’intermediario), a struttura unitaria (non si commettono tanti reati quanti sono i lavoratori interessati e coinvolti dalla condotta illecita) e di pericolo (non necessita la prova di uno specifico danno ai lavoratori reclutati ai fini della intermediazione e oggetto di sfruttamento).
Soggetto attivo
Soggetto attivo del reato è individuabile in qualsiasi soggetto od organismo (persona fisica o giuridica, in forma societaria collettiva o individuale, a carattere imprenditoriale, ma anche non imprenditoriale o addirittura istituzionale) che esercita una attività di intermediazione che non è soltanto o semplicemente abusiva, perché priva della necessaria autorizzazione e dei requisiti di iscrizione all’Albo delle Agenzie per il lavoro, ma avviene attraverso un sistematico e organizzato sfruttamento della manodopera. Possono rendersi, quindi, colpevoli del delitto in oggetto sia le società e i soggetti (anche istituzionali) autorizzati e iscritti in una delle sezioni dell’Albo delle Agenzie, sia tutti quei soggetti, in forma societaria, anche cooperativa, o individuale (“chiunque” recita la norma), che esercitano l’attività di intermediazione illecita sfruttando i lavoratori secondo gli indici di riferimento appositamente enucleati dall’art. 603-bis, comma 2, cod. pen., come introdotto dal decreto-legge n. 138/2011.
Soggetto passivo
Soggetto passivo del reato, vittima dello stesso, è il lavoratore reclutato e intermediato, quale che sia la natura giuridica del rapporto di lavoro formalmente instaurato e la qualificazione di esso. Sebbene il dettato normativo sembri rivolgersi ai lavoratori subordinati – come evidenziato dai concetti utilizzati nell’individuare gli indici rivelatori dello sfruttamento (retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale, ferie) – appare ragionevole, in ottica sistematica, riconoscere la sussistenza del delitto de quo in tutti i casi di sfruttamento dei lavoratori anche non subordinati.
Elemento psicologico-soggettivo
Quanto poi all’elemento soggettivo del delitto di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera deve rilevarsi come non sia sufficiente la sola colpa, ma si renda senz’altro necessaria una partecipazione psicologica di tipo doloso, dovendo l’autore del reato accompagnare psicologicamente l’agire con violenza, minaccia, o intimidazione, in uno con l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori intermediati. II dolo necessario per l’integrazione del delitto in esame è costituito dalla consapevolezza dello stato in cui versano i lavoratori, dalla parallela volontà di trarre profitto da tale particolare situazione, nonché dalla coscienza e volontà dell’azione violenta, minacciosa o intimidatoria.

Con riguardo poi agli effetti l’intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera costituisce una ipotesi di reato istantaneo con effetti permanenti, giacché il Legislatore viene a vietare e punire non soltanto lo sfruttamento della manodopera illecitamente reclutata, ma già la mera attivazione dell’attività organizzata e strutturata di intermediazione.

Sul piano più strettamente sanzionatorio la pena per il delitto in parola è di tipo detentivo congiuntamente ad una pena pecuniaria. La pena detentiva è della reclusione da 5 a 8 anni, mentre quella pecuniaria è della multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Riguardo alla pena pecuniaria, quindi, si tratta di una pena proporzionale impropria, ovvero di una pena a proporzionalità progressiva, dove rilevano la base sanzionatoria predeterminata dal Legislatore con un minimo e un massimo edittale e il coefficiente moltiplicatore che varia secondo le concrete modalità di realizzazione della fattispecie di reato.

L’art. 603-bis, comma 3, cod. pen., peraltro, prevede che la pena per il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera venga aumentata da un terzo alla metà in forza di tre aggravanti specifiche dettagliatamente individuate.

Si tratta di effettive circostanze aggravanti, rispetto all’ipotesi base sopra esaminata, conseguentemente saranno soggette al trattamento previsto per le fattispecie circostanziali, essendo la previsione normativa riconducibile, anche per espresso riferimento di legge, all’alveo delle circostanze speciali poiché comporta l’aumento dell’importo della pena, sia detentiva che pecuniaria, in misura superiore a un terzo (art. 63, comma 3, cod. pen.)[1].

L’aggravante speciale opererà nel caso in cui i lavoratori reclutati sono più di tre oppure quando almeno una delle persone intermediate è un minore in età non lavorativa o, infine, se i lavoratori intermediati sono stati esposti a situazioni di grave pericolo.

Più dettagliatamente la prima delle tre circostanze aggravanti previste dal terzo comma del nuovo articolo 603-bis cod.pen. è di carattere quantitativo operando in ragione del fatto che “il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre”. Dal dettato normativo, quindi, si evince chiaramente che l’aggravante dello sfruttamento plurimo si applicherà in ogni caso in cui i lavoratori reclutati dall’intermediario saranno almeno quattro. La scelta del Legislatore pare essere quella di evidenziare una maggiore gravità del comportamento che coinvolge una pluralità di lavoratori, al fine di punirlo più intensamente.

La seconda circostanza aggravante punisce il coinvolgimento di un minorenne non ancora in età di lavoro (“il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa”). Come già il D.Lgs. n. 276/2003 per il reato di intermediazione abusiva, anche il decreto-legge n. 138/2011 sceglie di caratterizzare per una maggiore odiosità il comportamento di chi recluta e intermedia minori ai quali l’ordinamento giuridico non riconosce alcuna possibilità di svolgere una attività lavorativa. La previsione, dunque, si muove nel solco della tutela costituzionale del lavoro minorile, al fine di evitare forme intollerabili di sfruttamento.

Da ultimo, nella terza circostanza aggravante il Legislatore si concentra sulle condizioni lavorative poste in essere dall’intermediario per punire maggiormente “l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a si-tuazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”. L’aggravante speciale opera quando le prestazioni lavorative richieste ai lavoratori reclutati e le condizioni di lavoro nelle quali gli stessi sono stati chiamati a rendere la propria attività lavorativa hanno determinato situazioni di obiettiva esposizione a pericolo grave. La gravità del pericolo non è misurata dalla norma, mentre la natura di esso sembra doversi necessariamente individuare nelle caratteristiche di prevenzione e protezione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Quanto poi ai criteri di imputazione delle circostanze aggravanti, quelle in argomento non sfuggono al regime generale di imputazione delle aggravanti previsto dall’art. 59, comma 2, cod. pen., vale a dire che lo sfruttamento plurimo, quello dei minori e quello in condizioni di grave pericolo potranno essere addebitati, con il relativo aggravamento della pena fissata dal Legislatore, se risulteranno avvenuti per colpa (ovviamente generica, nelle consuete caratteristiche della negligenza, della imperizia o della imprudenza) del soggetto autore del reato di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera.

Con riferimento al quantum della pena, ciascuna delle aggravanti speciali introdotte dall’art. 603-bis, comma 3, cod. pen. comporta l’applicazione della pena detentiva della reclusione da 6 anni e 6 mesi a 12 anni congiuntamente a quella pecuniaria della multa da 1.333 a 3.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.


[1] In materia di circostanze del reato si vedano: T. Padovani, Circostanze del reato, in Digesto Disc. Pen., Torino, 1988; E. Dolcini, L'imputazione dell'evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, Ridpp, 1979, 755 ss.; Marini, Circostanze del reato (Diritto penale), in NN.D.I. App., III, Torino, 1980, 1254 ss.; Concas, Il nuovo sistema delle circostanze, CP, 1984, 2296 ss.

Qualora condannato per il delitto di cui all’art. 603-bis cod. pen. il soggetto che ha posto in essere una intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro si vede applicate anche le pene accessorie previste dal nuovo art. 603-ter del codice penale, introdotto sempre dall’art. 12 del decreto-legge n. 138/2011. La norma, rubricata appunto “Pene accessorie”, stabilisce espressamente:



“La condanna per i delitti di cui agli articoli 600, limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad oggetto prestazioni lavorative, e 603-bis, importa l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, nonché il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti. La condanna per i delitti di cui al primo comma importa altresì l’esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell’Unione europea, relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento. L’esclusione di cui al secondo comma è aumentata a cinque anni quando il fatto è commesso da soggetto al quale sia stata applicata la recidiva ai sensi dell’articolo 99, secondo comma, numeri 1) e 3)”.



Come si nota, quindi, le pene accessorie vengono introdotte non soltanto per il nuovo delitto di intermediazione con sfruttamento della manodopera, ma anche per il preesistente delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 cod. pen. (nel testo introdotto dall’art. 1 della legge 11 agosto 2003, n. 228), il quale punisce con la reclusione da 8 a 20 anni[1] chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento[2], limitatamente ai soli casi in cui lo sfruttamento della persona ridotta in schiavitù riguarda prestazioni lavorative.

Le pene accessorie previste consistono in:

- interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese[3];

- divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti;

- esclusione per 2 anni – ma l’esclusione è per 5 anni in caso di recidiva[4] – da ogni agevolazione, finanziamento, contributo o sussidio pubblici (a livello nazionale, locale e comunitario) relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento.

Come si nota ciascuna delle pene accessorie previste dall’art. 603-ter cod. pen., che trovano immediata applicazione in conseguenza della condanna alle pene principali, quale effetto penale di questa[5], riguarda direttamente l’esercizio delle attività relazionali, di carattere economico e lucrativo, anche se non esclusivamente di tipo imprenditoriale, dalle quali si intende escludere o comunque non agevolare chi si è reso colpevole di delitti di grave sfruttamento dei lavoratori per intermediazione o per riduzione in schiavitù.

Secondo quanto previsto in generale dall’art. 20 cod. pen. anche per l’applicazione delle pene accessorie introdotte dall’art. 603-ter cod. pen. non è richiesta una esplicita pronuncia da parte del giudice, giacché dette pene accessorie trovano automatica attuazione, “per forza assolutamente obbligatoria ed inderogabile della sentenza di condanna”[6].


[1] Le pene sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, legge 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia), nonché se i fatti sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (art. 600, comma 3, cod. pen.).

[2] La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona (art. 600, comma 2, cod.pen.).

[3] Con speciale riguardo a tale pena accessoria che colpisce l’autore del delitto nell’esercizio di funzioni direttive in contesti societari ma anche associativi, si veda F. Sgubbi, “Una nuova pena accessoria nel codice penale: l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese”, GCo, 1983, I, 17.

[4] La recidiva che comporta l’aumento a 5 anni della esclusione dai benefici e dalle agevolazioni pubbliche è quella di cui all’art. 99, comma 2, nn. 1) e 3), cod.pen, vale a dire se il nuovo delitto è della stessa indole (ai sensi dell’art. 101 cod.pen. sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo previsti da disposizioni penali diverse per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, in concreto, caratteri fondamentali comuni) ovvero se il nuovo delitto è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.

[5] Così per l’art. 20 cod.pen. il quale stabilisce precisamente che «le pene principali sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa».

[6] Così, S. Larizza, “Pene accessorie”, in Digesto Disc. Pen., Torino, 1995.


Fonte: IPSOA

0 commenti:

 
Top