I giudici tributari della Commissione regionale del Veneto, con le sentenze nn. 28, 29, 30 e 31 del 14 aprile, hanno confermato la tesi dell'ufficio delle Entrate di Vicenza 2, ribaltando le sentenze della Ctp, relativa a un meccanismo per frodare l'Iva nel campo della grande distribuzione, messo in atto per gli anni dal 2002 al 2006.

La vicenda
Il meccanismo fraudolento è quello tra i più classici e riguarda le cessioni intracomunitarie non imponibili Iva. Tutto parte nel 2006 da una verifica fiscale effettuata dai funzionari dell'Agenzia delle Entrate a una società appartenente a un gruppo della grande distribuzione italiana.
La frode era semplice e consisteva nell'emettere fatture senza Iva a una società francese (estranea e ignara del tutto) per la vendita di prodotti di largo consumo per una decina di milioni di euro per poi, molto probabilmente, vendere la merce in nero a soggetti italiani del settore.

I requisiti essenziali previsti dalla normativa vigente per il riconoscimento della non imponibilità delle cessioni intracomunitarie dei beni (ex articolo 41, del Dl 331/1993) sono:
- esistenza di un soggetto intracomunitario con partita Iva attiva
- acquisizione della proprietà
- onerosità dell'operazione
- effettiva movimentazione della merce con partenza dall'Italia e arrivo in altro Stato membro.

Nel caso in esame, la società francese di fatto esisteva ma, attraverso il sistema di scambio di informazione con gli altri Paesi della Comunità europea, l'Agenzia delle Entrate ha verificato che era ignara e estranea a tutte le operazioni in quanto non aveva mai avuto alcun rapporto con la società italiana. Quest'ultima sosteneva di aver trattato con un intermediario, persona poi rivelatasi inesistente, che telefonicamente aveva fornito i dati della ditta francese e richiesto le merci.
Le vendite avvenivano ex-works, cioè il cliente (in teoria) ritirava la merce presso la sede della società italiana. I ddt (documenti di trasporto), però, riportavano solo la sigla del trasportatore senza possibilità di individuarlo con esattezza e, inoltre, non riportavano gli estremi dell'automezzo utilizzato per il trasporto della merce.

Infine, cosa che confermava la tesi dell'ufficio, la merce era sempre pagata con assegni circolari emessi da filiali di banche di varie città d'Italia e intestati direttamente alla società cedente, circostanza che avvalorava la presunta vendita dei beni a soggetti nazionali.
Ovviamente, l'assegno circolare è un mezzo di pagamento legittimo, ma appariva ai verificatori molto strano che una società francese di rilevanti dimensioni avesse tanti conti in varie città d'Italia e in diverse banche, anziché usare il mezzo di pagamento più comune in campo internazionale che è il bonifico bancario.

Il processo tributario
Il ricorrente, con articolate argomentazioni, chiedeva alla Ctp di Vicenza l'annullamento degli atti perché infondati e illegittimi.
Con quattro diverse sentenze, la Commissione accoglieva i ricorsi, nell'erroneo convincimento che la parte, in ordine alle cessioni intracomunitarie contestate, avesse ottemperato all'unico obbligo previsto a suo carico dall'articolo 50 del Dl 331/1993, ossia la verifica del numero identificativo fiscale del cessionario francese.

L'ufficio di Vicenza 2 proponeva appello, lamentando la violazione degli articoli 41 e 50 del Dl 331/1993, non essendoci la prova del trasferimento fisico della merce fuori dal territorio nazionale ad altro soggetto Iva comunitario e non avendo la società neanche richiesto all'acquirente francese in una forma documentabile il codice identificativo ISO, codice fornito telefonicamente da un terzo sconosciuto.

Il giudice di secondo grado ha accolto il primo motivo, osservando che l'onere di provare l'esistenza dello scambio intracomunitario è a carico del contribuente. E, poiché per l'articolo 41 la cosiddetta territorialità è elemento costitutivo della cessione intracomunitaria, in assenza di detto elemento non si può applicare la imponibilità. Nei casi in esame, proseguono i giudici veneziani, sarebbe stato onere della contribuente provare con una qualsiasi idonea documentazione, con carattere di certezza e incontrovertibilità, l'avvenuto trasferimento fisico della merce, non essendo sufficiente il semplice rilievo che una tale dimostrazione si atteggerebbe quale probatio diabolica, poiché, al contrario, nella pratica commerciale la prova del trasferimento fisico dei beni può essere agevolmente fornita con una serie di mezzi documentali.

La Ctr ha, poi, dichiarato assorbito dal primo l'altro motivo d'appello, vale a dire la violazione dell'articolo 50 che disciplina gli obblighi formali connessi agli scambi intracomunitari.
Pertanto, il giudice ha sposato la tesi dell'ufficio, confermando il fatto che l'operazione non poteva essere qualificata come cessione intracomunitaria e, anzi, si era di fronte a una conclamata frode fiscale ai danni dell'Erario, pari a oltre 2 milioni di euro di Iva evasa.


Fonte: Agenzia Entrate

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