La fatturazione fittizia ingenera una presunzione di corrispondente vantaggio economico, che è onere del contribuente superare.

E’ questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 22680 del 9 settembre 2008.

L'iter giudiziario di primo e secondo grado

Un contribuente impugnava un avviso di accertamento con il quale l’agenzia delle Entrate aveva definito un maggior imponibile Irpef, recuperando a tassazione un ingente importo riferibile a fatture emesse per operazioni nella realtà inesistenti.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, annullando integralmente l’accertamento in questione.

La decisione di primo grado veniva successivamente confermata in appello dalla Commissione tributaria regionale. I giudici, testualmente, così giustificavano il rigetto dell’impugnativa dell’Amministrazione finanziaria: “l’accertata inesistenza delle operazioni commerciali - ritenuta fatturazione di comodo - esclude, per definizione, che possa trattarsi di redditi effettivamente conseguiti”.

Il ricorso per cassazione

L’Agenzia delle entrate proponeva ricorso in Cassazione, deducendo l’omessa, insufficiente e illogica motivazione, e censurando la decisione impugnata principalmente in base a due rilievi:

il giudice penale aveva definitivamente accertato che il contribuente aveva emesso fatture per operazioni inesistenti

anche per le prestazioni fittizie è da presumere un ritorno economico, dato che nessuno porrebbe in essere tali comportamenti se non prospettasse a se stesso un fine di lucro, tanto più consistente in ragione del rischio corso. L'ufficio aveva, pertanto, legittimamente proceduto ad accertamento in via presuntiva.

La decisione

La Suprema corte ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, giudicando la pronuncia impugnata non congruamente ed esaurientemente motivata e rinviando la questione ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.

A parte la previsione dell’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972 - che esplicitamente prevede, in materia di Iva, l’assoggettamento a imposta degli importi indicati da fatture emesse per operazioni inesistenti (“se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relativi sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”) - la decisione impugnata si è risolta in un’affermazione rivelatasi assolutamente tautologica, tanto più in relazione al ragionevole assunto dell’Amministrazione secondo cui la fatturazione fittizia ingenera almeno, nella prospettiva di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, una presunzione di corrispondente vantaggio economico che è onere del contribuente superare.

Per i redditi d’impresa delle persone fisiche, l’ufficio procede, infatti, alla rettifica se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolte dall’ufficio. L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.

La Corte ha, infine, aggiunto che esiste, nell’ordinamento tributario, il principio della tipicità degli atti di accertamento, per il quale, fatta eccezione per i provvedimenti adottati in via di discrezionale autotutela o su richiesta di rimborso, non sono previsti provvedimenti in relazione ai quali l’Amministrazione sia tenuta a ricercare, di sua iniziativa, circostanze idonee a comportare la riduzione del debito d’imposta del contribuente.


Fonte: Agenzia Entrate

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