"Qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile con il diritto comunitario, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone dell'altra categoria".
E' quanto si legge nell'ordinanza del 16 gennaio 2008 della Corte di giustizia, conseguenza di una domanda di pronuncia pregiudiziale, ex articolo 234 del Trattato, proposta dalla Ctp di Latina. Un'ordinanza che ha riacceso i riflettori sulla querelle "incentivo all'esodo" e su cui è opportuna qualche riflessione.
A una prima analisi, appare chiaro come l'ordinanza, interessandosi della fase transitoria intercorrente tra la pronuncia di incompatibilità e l'adeguamento del legislatore nazionale, esplicasse effetti limitati al periodo temporale precedente alla avvenuta rimozione da parte del legislatore della disposizione discriminatoria; rimozione che, una volta intervenuta, poneva la norma nazionale al riparo da ogni censura.
Tuttavia, l'ordinanza ha sollevato negli operatori non poche perplessità, in particolare in merito al tipo di adeguamento adottato dal legislatore nazionale, che ha eliminato la discriminazione tra uomini e donne non verso il basso (50 anni), ma verso l'alto (55 anni), applicando, dunque, ai soggetti "favoriti" lo stesso trattamento riservato agli "sfavoriti" (cioè, l'esatto contrario di quanto evidenziato dalla Corte di giustizia).
A ben vedere tali perplessità sono infondate.
Innanzitutto è opportuno inquadrare il tipo di pronuncia.
Come noto, l'attività interpretativa della Corte di giustizia, ex articolo 234 (già 177), paragrafo 1, lettera a), del Trattato, in materia tributaria, ha come oggetto principale, nell'ambito dell'armonizzazione delle legislazioni interne in materia fiscale, i tributi di origine comunitaria, in particolare l'Iva. Tale attività può, però, riguardare (come nel caso di specie) anche fattispecie relative al divieto di "non discriminazione", tra cui il principio di non discriminazione nell'imposizione indiretta e diretta.
L'articolo 234 del Trattato riserva, cioè, in via esclusiva alla Corte di giustizia il potere di interpretare in via pregiudiziale le norme comunitarie.
Il potere di interpretazione è però cosa ben diversa da quello di giudizio sulla compatibilità delle norme interne con quelle comunitarie.
Spetta infatti, in questi casi, sempre e comunque al giudice nazionale accertare il fatto e applicare le norme (interpretate) al caso concreto (vedi Corte di giustizia, 27 marzo 1963, C-28, 29 e 30/62).
Questo è l'ambito all'interno del quale è intervenuta l'ordinanza.
Non siamo, cioè, davanti a una "controversia comunitaria", ma nel campo delle competenze cosiddette "indirette" della Corte, la quale viene investita, indirettamente e incidentalmente, di una questione interpretativa (e non di compatibilità), rilevante ai fini di uno specifico giudizio interno, la cui decisione finale spetta comunque al giudice nazionale.
La Corte, dunque, in un tale contesto, non decide della compatibilità di una norma nazionale con il diritto comunitario, ma si limita a fornire al giudice nazionale, per quello specifico processo, "gli elementi d'interpretazione del diritto comunitario che gli consentiranno di risolvere la questione giuridica di cui deve conoscere" (Corte di giustizia, sezione II, 25 maggio 1989, C-15/88).
La relativa pronuncia avrà effetti solo per il giudice a quo e non si estenderà a casi diversi da quello esaminato (non avrà cioè efficacia erga omnes).
In conclusione, l'articolo 234 (sulla base del quale la questione era stata rimessa alla Corte) conferisce al giudice comunitario unicamente il potere di interpretare il diritto comunitario, lasciando comunque al giudice interno (quello di rinvio) il potere di applicare (e come) l'interpretazione data.
La Corte non può dire al giudice nazionale come deve concretamente disapplicare la norma incompatibile.
Nel caso in esame, inoltre, vi è anche un altro profilo importante, peraltro evidenziato nella stessa ordinanza, nella parte in cui la Corte ha ricordato, comunque, sia che "è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario sul loro territorio", sia che "le…autorità mantengono un potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il diritto nazionale sia adeguato al diritto comunitario".
Nel caso di specie, tale potere discrezionale è stato poi puntualmente (e tempestivamente) esercitato dal legislatore nazionale che, con l'articolo 36, comma 23, del Dl 223/2006, ha abrogato il comma 4-bis dell'articolo 19 del Tuir, eliminando così la differenziazione di trattamento tra donna e uomo, oggetto di censura da parte della Corte di giustizia. E lo ha fatto con una norma avente, in sostanza, valore di interpretazione autentica (anche se, potremmo dire, "vincolata", laddove l'interpretazione è stata suggerita dalla Corte comunitaria con la sentenza n. C-207/04) con efficacia retroattiva (che copre anche il periodo transitorio), al fine di precisare il significato (che fosse legittimo anche da un punto di vista della compatibilità comunitaria) di una precedente disposizione legislativa.
Il legislatore si è posto, infatti, l'obiettivo di eliminare l'incertezza interpretativa che poteva derivare dall'intervento della sentenza comunitaria, nella sicurezza che una qualsiasi differenziazione tra uomini e donne era incompatibile con le previsioni "europee", ma nell'incertezza se l'eliminazione della differenza di trattamento fosse da realizzare verso l'alto o verso il basso (scelta questa discrezionale interna).
All'organo legislativo è infatti riservata la responsabilità di definire la "politica di diritto", pur sempre nel rispetto dei principi di ragionevolezza (espresso in primo luogo nel divieto di discriminazione, che infatti nel caso di specie non c'è) e di tutela dell'affidamento legittimamente sorto (tutelato, dato che il legislatore, pur abrogando la disposizione, ha fatto però salvi i diritti di coloro che avevano già contrattato un piano incentivato di esodo).
Voler imporre al legislatore scelte di politica nazionale rappresenterebbe, come giustamente ricordato dalla Ctp del Piemonte, sentenza n. 62/28/07 del 7 marzo 2008 (cfr "Incentivo all'esodo. Facciamo il punto" di Giovambattista Palumbo, su FISCOoggi del 7/10/2008), una indebita forzatura; estendere decisioni interpretative della Corte comunitaria oltre i relativi limiti giuridici (e temporali) sarebbe, questa sì, una violazione del giusto rapporto tra ordinamento interno e comunitario.
Fonte: Agenzia Entrate
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