Il ricorso all’accertamento con metodo induttivo non altera l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova. Conseguentemente, se all’Amministrazione finanziaria spetta dimostrare i fatti costitutivi della pretesa tributaria e della maggiore base imponibile, il contribuente deve allegare i fatti impeditivi ed estintivi di tale pretesa. Peraltro, qualora l’inesattezza, l’incompletezza o l’infedeltà dei dati esposti nella dichiarazione risultino in modo certo o diretto dagli accertamenti compiuti a carico di terzi soggetti, tali risultanze ben possono essere utilizzate nei confronti del contribuente, anche prescindendo da ispezione e verifiche presso il medesimo.

A tali conclusioni sono pervenuti i giudici di legittimità con la sentenza 24433 del 2 ottobre 2008, confermando, peraltro, il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di onere della prova in campo tributario.

La controversia

La Commissione tributaria provinciale di Caserta accoglieva il ricorso presentato dalla società contribuente contro un avviso di accertamento ai fini Irpeg e Ilor, con il quale venivano recuperati a tassazione costi non deducibili relativi a fatture per operazioni inesistenti, rivelatesi tali a seguito di una verifica effettuata dalla Guardia di finanza presso le società emittenti.

L’Amministrazione finanziaria proponeva appello, ma l’atto veniva respinto dai giudici di secondo grado poiché gli stessi ritenevano che l’ufficio avrebbe dovuto produrre documentazione costituente prova certa della natura fittizia delle fatture contestate, attraverso una verifica eseguita a carico della società accertata e non mediante presunzioni desunte da verbali di ispezioni eseguite presso terzi.

Tale decisione veniva impugnata in Cassazione dall’Amministrazione finanziaria che deduceva violazione e falsa applicazione degli articoli 39, Dpr 600/1973, 2967 Cc, e 7, del Dlgs 546/1992, evidenziando come l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno luogo a oneri o costi deducibili gravi sul contribuente che ne invoca la deducibilità.

La pronuncia della Cassazione

La Suprema corte ha accolto il ricorso dell’agenzia delle Entrate riconoscendo, cosa ormai pacifica, che se compete all’Amministrazione finanziaria fornire la prova in ordine alle componenti positive del presupposto del tributo, spetta al contribuente dimostrare i fatti impeditivi ed estintivi di tale pretesa, in ossequio al principio dettato dall’articolo 2967 del Codice civile.

Il consolidato orientamento giurisprudenziale ha riconosciuto la piena applicabilità, anche nel processo tributario, della regola di giudizio posta dal citato articolo 2967, comma 1, del Codice civile. Ne discende, pertanto, che chi in giudizio vuol far valere un proprio diritto ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto stesso, mentre chi contesta la rilevanza di tali fatti ha l’onere di provarne l’inefficacia ovvero di dimostrare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi.

Con riguardo all’oggetto della prova, occorre precisare che il processo tributario è un processo di impugnazione-merito, cioè costruito formalmente come giudizio di impugnazione dell’atto, ma tendente all’accertamento sostanziale del rapporto; pertanto, la questione dell’onere della prova va risolta valutando le posizioni sostanziali delle parti in giudizio.

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta, perciò, all’Amministrazione finanziaria dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggior pretesa azionata, fornendo la prova di elementi e circostanze, a suo avviso, rivelatori dell’esistenza di un maggior reddito; incombe, di converso, sul contribuente, che intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, l’onere di dimostrare gli elementi sui quali si fondano le sue eccezioni.

La stessa Cassazione ha più volte affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi e in merito alla deducibilità di costi non registrati, l’onere della prova circa l’esistenza e l’inerenza delle componenti negative del reddito grava sul contribuente (sentenze 10802/2002, 3109/2005, 28685/2005), e, nel caso in cui l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative a operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni Iva deve essere fornita dal contribuente mediante l’esibizione dei documenti contabili legittimanti.

Nel momento in cui si paga l’imposta per effetto di una cessione, si acquisisce il diritto a portare l’imposta in detrazione alle condizioni di legge. Tale diritto può essere esercitato solo se vengono acquisiti, conservati ed esibiti, a richiesta dell’ufficio, i documenti che attestano le operazioni effettuate. Quando il contribuente non è in grado di provare la fonte che legittima la detrazione, evidentemente non è in grado di provare il fatto costitutivo del suo diritto, sicché legittimamente la detrazione non è riconosciuta e l’ufficio procede a recuperare a tassazione l’imposta detratta irritualmente.

Occorre, altresì, evidenziare che la Suprema corte, con la sentenza 14570/2001, aveva precisato il principio secondo cui, affinché un costo possa essere incluso tra le componenti negative del reddito, non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre anche che ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisca ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa. Per provare tale ultimo requisito, non è sufficiente, poi, che la spesa sia stata riconosciuta dall’imprenditore e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa. Ne deriva che non è sufficiente la registrazione dei costi nelle scritture contabili affinché l’Amministrazione li debba riconoscere, né può imporsi all’ufficio un onere di provare la non esistenza o inerenza. L’esistenza di una regolare contabilità non impedisce all’ufficio di valutare analiticamente i componenti del reddito d’impresa, pur registrati in contabilità ed esposti nella dichiarazione.

Alle medesime conclusioni perviene anche la dottrina, sostenendo che è onere del contribuente sia la prova dell’inerenza dei costi, sia la dimostrazione dei fatti che danno diritto a deduzioni di imposta.

Per concludere, va ricordato che, con la sentenza 24433/2008, i giudici di legittimità hanno, altresì, precisato che l’Amministrazione finanziaria è pienamente legittimata a procedere a rettifica anche quando l’incompletezza, l’inesattezza o l’incertezza degli elementi indicati nella dichiarazione risulti in modo certo e diretto dai verbali relativi a ispezioni eseguite presso altri soggetti; pertanto, è ben possibile che l’ufficio tragga le prove dell’inesistenza di alcune operazioni non da verifiche presso l’impresa accertata bensì presso quella che ha emesso le relative fatture.

La pretesa illiceità dei documenti non deve, quindi, essere necessariamente documentata attraverso la verifica eseguita a carico della società accertata, ma può essere provata anche attraverso verbali relativi a ispezioni presso terzi, dai quali risulti in modo certo e diretto l’incompletezza, l’inesattezza o l’incertezza degli elementi indicati nella dichiarazione della società accertata.


Fonte: Agenzia Entrate

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