Il rimborso dell’eccedenza dell’Iva detraibile costituisce uno degli elementi fondamentali a garanzia dell’applicazione del principio della neutralità fiscale, relativo all’Iva.
In tema di rimborsi Iva, l’articolo 183 della direttiva n. 2006/112/Ce dispone che qualora, per un periodo d’imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’Iva dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo o procedere al rimborso secondo modalità da essi stabilite.
Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, le modalità nazionali di rimborso dell’eccedenza di Iva che uno Stato membro stabilisce devono consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di Iva. Ciò significa che, in linea di principio, il rimborso Iva deve essere effettuato, entro un termine ragionevole, mediante pagamento di somme liquide di denaro o in modo equivalente, senza far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo (cfr Corte di giustizia: 28 luglio 2011; 21 gennaio 2010, causa C‑472/08, Alstom Power Hydro causa C-274/10, Commissione Europea contro Repubblica di Ungheria; 25 ottobre 2001, Causa C-78/00, Commissione/Repubblica italiana; 12 maggio 2011, Causa C-107/10, Enel Maritsa Iztok).

Nell’ordinamento nazionale, l’importo a credito che risulta a fine anno può essere chiesto a rimborso al sussistere di determinati presupposti soggettivi e oggettivi disciplinati dall’articolo 30 del Dpr 633/1972. Il successivo articolo 38-bis fissa le regole di esecuzione dei rimborsi. Gli articoli 38-bis1 e 38-bis2 dettano le regole, rispettivamente per il rimborso dell’Iva pagata da soggetti passivi italiani in altri Stati membri dell’Ue e per il rimborso dell’Iva italiana a soggetti passivi d’imposta stabiliti in altri paesi dell’Ue. La disciplina del rimborso a soggetti passivi stabiliti fuori dell’Ue è contenuta, infine, nell’articolo 38-ter del Dpr 633/1972.

Presupposti del rimborso
Sotto il profilo della legittimazione soggettiva, il rimborso può essere chiesto dal contribuente, soggetto passivo Iva. In proposito, secondo la giurisprudenza nazionale (Cassazione, sentenza 208/2001) ed europea (Corte di giustizia Cee, sentenza 10 aprile 2008, causa C-309/06), qualora il fornitore di beni o servizi addebiti erroneamente l’Iva a un privato, quest’ultimo non è legittimato a chiedere il rimborso dell’imposta direttamente all’Erario o ad attivare una procedura avanti le commissioni tributarie per avere restituita dallo Stato l’Iva che ritiene non dovuta.

Con riguardo all’ipotesi di cessazione dell’attività d’impresa, che si concretizza, ai fini civilistici e fiscali, nell’esaurimento della fase di liquidazione della società, la richiesta di rimborso relativa all’eccedenza d’imposta, risultata alla cessazione dell’attività, il contribuente ha diritto al rimborso dell’Iva da tale momento e non da quello di presentazione della dichiarazione di cessazione dell’attività d’impresa (Cassazione, ordinanza 8851/2015; ordinanza 8733/2015; 9794/2010; 25318/2010; 13920/2011; 27948/2009; 14070/2012; 7684, 7685 e 23580/2012; 5851/2012).

Nei casi di fallimento, solo la dichiarazione del curatore per il periodo prefallimentare, a differenza della dichiarazione annuale, accerta formalmente la cessazione di attività e chiude l’intero rapporto tributario antecedente. Conseguentemente, tale dichiarazione del curatore è ritenuta equiparabile alla cessazione dell’attività, facendo sorgere il diritto della curatela fallimentare al rimborso dei versamenti che risultino effettuati in eccedenza, ai sensi dell’articolo 30 del Dpr 633/1972 (Cassazione 8642/2009; 19072/2003).
Il comma 2 dell’articolo 74-bis del Dpr 633/1972 - introdotto con il Dpr 687/1974 - nello stabilire che per le operazioni effettuate successivamente all’apertura del fallimento gli adempimenti previsti dalla legge Iva devono essere eseguiti dal curatore lascia intendere che si sia voluta conservare, agli effetti Iva, la qualifica di imprenditore anche alla gestione fallimentare dell’impresa. Conseguentemente al fallito tornato in bonis spetta il rimborso del credito Iva determinatosi in capo alla impresa durante il fallimento, a nulla rilevando che in tale periodo l’impresa non abbia effettuato operazioni attive - come richiede l’articolo 30, ultimo comma, del Dpr 633/1972 - in quanto tale norma non può che riferirsi alle sole imprese in piena attività. Il socio di una società di persone una volta tornato in bonis è, quindi, pienamente legittimato a impugnare dinanzi alle Commissioni tributarie il rifiuto dell’ufficio Iva a rimborsare un credito alla società (Cassazione, 13091/1992).

La richiesta di rimborso dell’eccedenza di credito Iva presentata da una società in fase di liquidazione, ai sensi dell’articolo 30, secondo comma, del Dpr 633/1972, può rendersi legittimamente esperibile solo in relazione all’anno d’imposta in cui sono effettivamente terminate le operazioni di liquidazione, e non nell’anno di mera messa in liquidazione della società (Cassazione, 10227/2003). In tale fattispecie, la Corte di cassazione ha anche riconosciuto che il credito di una società posta in liquidazione, relativo al rimborso dell’imposta richiesto, a norma del Dpr 633/1972, articolo 30, all’atto della dichiarazione Iva dell’ultimo anno di attività, non è condizionato all’esposizione del credito stesso nel bilancio finale della società (nella specie assente, per essere stato quel credito ceduto), in quanto l’efficacia probatoria dei libri sociali, derivante dalla normativa pubblicistica, attiene ai rapporti di debito e credito inerenti all’esercizio dell’impresa, mentre la contabilità Iva, pur non avendo alcuna efficacia probatoria in tali rapporti, documenta comunque il debito fiscale, rendendone possibile il controllo da parte dell’amministrazione finanziaria (Cassazione, ordinanza 13345/2012; sentenza 3530/2006).

Nei casi di conferimento di un’azienda individuale in una società, sia essa di persona o di capitali, comporta la successione dei contratti regolata dall’articolo 2559 del codice civile. Conseguentemente, il credito Iva (che può essere ceduto ai sensi dell’articolo 5, comma 4-ter, del Dl 70/1988), già vantato dall’imprenditore individuale, non può essere chiesto a rimborso dal soggetto conferente, ma soltanto dalla società conferitaria (Cassazione, 6578/2008).

In caso di fusione per incorporazione, una fattispecie in cui determinate operazioni compiute da una società successivamente incorporata, e dalle quali è derivato un credito d’imposta, siano state evidenziate nella dichiarazione annuale erroneamente presentata da tale società per la frazione d’anno “ante” fusione, e non nella dichiarazione annuale cumulativa (correttamente) presentata dalla società incorporante “post” fusione, costituisce violazione di carattere meramente formale, in quanto di per sé non comportante pregiudizio patrimoniale a danno dell’Erario, quindi sanabile dalla stessa incorporante a norma dell’articolo 19-bis del Dl 41/1995. Conseguentemente, deve ritenersi legittima la richiesta di rimborso di tale credito presentata dall’incorporante nella cennata dichiarazione annuale cumulativa, qualora dalle scritture contabili tenute dall’incorporata il credito medesimo risulti effettivamente spettante (Cassazione, 22774/2006).

Sotto il profilo oggettivo, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, il diritto alla detrazione - e quindi, ove consentito ex lege, al rimborso - dell’imposta assolta sugli acquisti, ai sensi dell’articolo 19 dello stesso Dpr 633, spetta anche qualora la società non abbia ancora compiuto operazioni attive imponibili per temporanee difficoltà finanziarie o per fluttuazioni di mercato (Cassazione, 5739/2005; 15224/2004; 27046/2005).
La soluzione della giurisprudenza nazionale appare coerente ai principi sanciti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia secondo cui chi ha l’intenzione, confermata da elementi obiettivi, di iniziare in modo autonomo un’attività economica ed effettua, a tal fine, le prime spese di investimento, deve essere considerato come soggetto passivo che ha il diritto di detrarre immediatamente l’Iva dovuta o pagata sulle spese sostenute in vista delle operazioni che intende effettuare e che danno diritto alla detrazione, senza dovere aspettare l’inizio dell’esercizio effettivo della sua impresa (Corte di giustizia, cause riunite da C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa e a.). Salvo nei casi di situazioni fraudolente o abusive, la qualità di soggetto passivo Iva non può essere revocata con effetto retroattivo a tale società, qualora, in considerazione dei risultati di tale studio, si sia deciso di non passare alla fase operativa e di metterla in liquidazione, di modo che l’attività economica prevista non ha dato luogo a operazioni imponibili (Corte di giustizia, sentenza 29 febbraio 1996, C-110/94, Inzo).
Il diritto a detrazione rimane acquisito qualora, a causa di circostanze estranee alla sua volontà, il soggetto passivo non abbia mai fatto uso dei suddetti beni e servizi per realizzare operazioni imponibili (cfr Corte di giustizia, 15 gennaio 1998, C-37/95, Soc. Ghent Coal Terminal NV).

Con riguardo al rimborso dell’Iva indebitamente fatturata dal cedente e da questi versata all’Erario, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza della Corte di cassazione, il soggetto legittimato a richiedere all’Amministrazione finanziaria il rimborso della maggiore imposta versata deve essere individuato nel cedente del bene o nel prestatore del servizio, e non nel cessionario e/o committente che ha versato al primo tale imposta a titolo di rivalsa (Cassazione, 3817/2009; 28177/2008; 272/2001; 8783/2001). Conseguentemente, il committente dei servizi che abbia corrisposto l’Iva al prestatore non è legittimato a chiederne la ripetizione all’Amministrazione finanziaria (Cassazione, 19682/2004).
In senso contrario, parte della giurisprudenza di Cassazione ha ritenuto che i committenti e gli acquirenti che operano nell’esercizio di una professione o di un’impresa, acquistando beni e servizi strumentali ai fini di tale esercizio, sono ammessi ad adire la giurisdizione tributaria - in virtù del principio di effettività delle norme di diritto dell’Unione europea la cui applicazione ed efficacia devono essere assicurate nell’ordinamento interno - in merito a ogni controversia tributaria (Cassazione, 208/2008; 20752/2008).

Modalità di richiesta del rimborso
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, deve ritenersi non legittima la richiesta di rimborso dell’imposta evidenziata a credito in una dichiarazione annuale non sottoscritta, la cui nullità non è stata sanata dal contribuente nel termine di trenta giorni dal ricevimento dell’invito dell’ufficio Iva competente alla successiva sottoscrizione della medesima dichiarazione (Cassazione, 22018/2006; 19742/2010; 10605 e 10606 del 2011).

Qualora il contribuente, nella dichiarazione annuale, abbia avanzato richiesta di rimborso dell’eccedenza detraibile, ai sensi dell’articolo 30 del Dpr 633/1972, la successiva detrazione in sede di liquidazione, anteriormente alla revoca della richiesta di rimborso, della medesima somma già oggetto di detta richiesta, è illegittima e configura un omesso versamento di somme dovute all’erario (Cassazione, 4246/2007; 22872/2006; 4743/2010).

La mancata attivazione della speciale procedura di variazione dell’imposta e dell’imponibile ivi prevista fa venir meno solo il diritto a recuperare il credito mediante detrazione, ma non preclude la possibilità di ottenere il rimborso della maggiore imposta, indebitamente versata, poiché il ricorso a tale procedura rappresenta una modalità di recupero dell’indebito rimessa alla libera scelta del contribuente, che potrebbe pertanto optare, del tutto legittimamente, per l’azione generale di rimborso prevista dal Dlgs 546/1992, articolo 21 (Cassazione, 5427/2000; 2274 e 3306 del 2004; 4416 e 5094 del 2005; 9437/2006; 6193/2007; 3380/2010; 7330/2012).

Nel caso in cui il cedente, non essendosi avvalso della procedura di cui all’articolo 26 del Dpr 633/1972 al fine di “recuperare” l’Iva erroneamente da lui versata, ricorra all’azione generale di rimborso disciplinata dall’articolo 21 del Dlgs 546/1992, l’Amministrazione finanziaria non potrà opporgli la circostanza che egli si sia, a sua volta, rivalso dell’imposta sul cessionario. Conseguentemente non rileva la possibilità che il cedente finisca con il conseguire un arricchimento definitivo e senza titolo, dovuto al successivo inadempimento del suo obbligo di restituzione, al cessionario, dell’importo indebitamente conseguito in rivalsa, posto che una tale evenienza rappresenta un dato del tutto ipotetico postulante una futura e illecita condotta del cedente (Cassazione, 8786/2009).

Con riguardo alla spettanza del rimborso nell’ipotesi di mancata presentazione del modello VR, la Suprema corte ha affermato che, ai sensi dell’articolo 38-bis del Dpr 633 del 1972, nel caso di dichiarazione annuale con indicazione di un credito d’imposta in favore del contribuente, la mancata presentazione del modello per la richiesta di rimborso (modello VR) non comporta la perdita del diritto sostanziale al rimborso stesso, applicandosi per esso il termine ordinario di prescrizione decennale stabilito dall’articolo 2946 cc (Cassazione, 20039/2011; 4161/2009).
Secondo quest’ultimo orientamento giurisprudenziale, la domanda di rimborso dell’Iva o di restituzione del credito d’imposta maturato dal contribuente deve ritenersi già presentata con la compilazione, nella dichiarazione annuale, del quadro relativo al credito stesso. La presentazione del modello di rimborso costituisce esclusivamente presupposto per l’esigibilità del e, quindi, adempimento necessario solo per dare inizio al procedimento di esecuzione di esso.
Ne consegue che, una volta manifestata in dichiarazione la volontà di recuperare il credito d’imposta, il diritto al rimborso, pure in difetto dell’apposita, ulteriore domanda, non può considerarsi assoggettato al termine biennale di decadenza previsto dal Dlgs 546/1992, articolo 21, comma 2, ma solo a quello di prescrizione ordinario decennale ex articolo 2946 cc, come nella specie (Cassazione, 9970/2015; 11389/2015; cfr anche Cassazione, 20678/2014; 15229/2012; 17396/2012).

In altri termini, alla proposizione formale di apposita istanza di rimborso o alla equipollente dichiarazione del credito Iva nel relativo quadro della dichiarazione annuale, si applica il termine biennale di decadenza di cui all’articolo 21 del Dlgs 546/1992. Tuttavia, laddove la decadenza sia stata evitata con l’avvenuta presentazione dell’istanza nel biennio, anche mediante inserimento del credito in dichiarazione, e una volta che sulla richiesta sia maturato il silenzio rifiuto o vi sia stato un formale atto di diniego, non potrà che essere applicato l’ordinario termine decennale di prescrizione di cui all’articolo 2946 cc, decorso il quale il diritto al rimborso si estinguerà definitivamente (cfr Cassazione, 9970/2015; 16477/2004; 20039/2011; 7684/2012; 8813/2013; 20678/2014).

Tra le questioni interpretative connesse alla tematica dei rimborsi Iva, una delle più complesse, è stata quella relativa al riconoscimento del diritto al rimborso in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale Iva.
Secondo la Corte di cassazione, la mancata esposizione della maggiore detrazione nella dichiarazione annuale esclude il diritto di detrarre l’eccedenza nell’anno successivo, ai sensi del Dpr 633/1972, articolo 30, comma 2, oltre a quello di chiederne il rimborso; ma ciò non implica affatto che il contribuente, dopo aver versato (per ragioni cautelative o di altro genere) somme obbiettivamente non dovute, perda il diritto di chiedere la ripetizione dell’indebito, entro i termini e salve le preclusioni di legge.
In tal senso, secondo la Corte di cassazione, la mancata esposizione del credito Iva nella dichiarazione annuale non comporta la decadenza dal diritto di far valere tale credito, purché lo stesso emerga dalle scritture contabili (Cassazione, 17067/2006 e 22774/2006, nella cui motivazione si richiama Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 2002, C-62 Liberexim BV).

Questa conclusione è conforme sia a principi generali, di rango costituzionale (capacità contributiva e di buona amministrazione) o propri del sistema tributario, per cui la dichiarazione non assume valore confessorio e non costituisce fonte dell’obbligazione tributaria (Cassazione, 4755/2008, 1708/2007, 8362/2002), mentre i rapporti tra Amministrazione finanziaria e contribuente debbono essere improntati a collaborazione e buona fede, sia a principi del diritto dell’Unione europea.
Secondo tale orientamento della Corte di cassazione, la dichiarazione del contribuente non costituisce la fonte dell’obbligo tributario né produce effetti assimilabili a quelli di una confessione (la dichiarazione, precisamente, rappresenta unicamente un momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione dell’imposta): quella fonte, infatti, per l’imposta sul valore aggiunto, ai sensi del Dpr 633/1972, articolo 1, è data unicamente dal coinvolgimento del contribuente in una delle operazioni imponibili (Cassazione, 10808/2012).
Risulta, quindi, superato l’orientamento secondo cui, ai sensi dell’articolo 37 del Dpr 633/1972, vigente ratione temporis (1993), poiché la dichiarazione annuale del tributo deve considerarsi come l’unico strumento per riconoscere qualunque effetto favorevole per il contribuente, la presentazione tardiva della medesima (equivalendo all’omissione) preclude il riconoscimento del credito d’imposta in essa indicato, pur se effettivamente esistente (Cassazione, 28050/2009).

Differente fattispecie è quella in cui il credito Iva è indicato nella dichiarazione relativa all’anno di maturazione, ma non è riportato nella dichiarazione annuale immediatamente successiva (per dimenticanza o per omissione della stessa).
In proposito, secondo la Corte di cassazione, ove il contribuente fruisca di un credito di imposta per un determinato anno e lo esponga nella dichiarazione annuale, se omette di riportarlo nella dichiarazione relativa all’anno successivo, non perde il diritto al rimborso (Cassazione, 523/2002).


Fonte: Agenzia Entrate

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