Per usufruire del regime di non imponibilità ai fini Iva delle operazioni intracomunitarie, non bastano gli adempimenti di natura formale, ma il cedente deve provare anche l’esistenza dello scambio intracomunitario ovvero l’effettivo trasferimento del bene in altro Paese dell’Unione europea.
È quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 12964 del 24 maggio 2013.

La vicenda
La Guardia di finanza contestava a una società a responsabilità limitata la fatturazione di merci asseritamente destinate all’esportazione in favore di una società tedesca, ma in realtà movimentate esclusivamente in Italia.
Veniva quindi emesso nei confronti della società contribuente, che si era avvalsa del regime di non imponibilità delle operazioni intracomunitarie, un avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2009, per il recupero dell’Iva, con ulteriore irrogazione di sanzioni.
I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, accoglievano i ricorsi della società contribuente che, alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia, non sarebbe stata tenuta a verificare l’avvenuto trasferimento della merce fatturata in un altro Paese comunitario, ma soltanto a rispettare le prescrizioni normative concernenti gli adempimenti formali.

Il ricorso
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 41, comma 1, lettera a), del decreto legge 331/1993 e dell’articolo 28-quater, punto a), lettera a), della direttiva 77/388/Cee, in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile.
L’Amministrazione finanziaria lamentava, in particolare, che la Commissione tributaria regionale, nel respingere l’appello aveva erroneamente ritenuto che non incombesse sul cedente altro onere se non quello di essere in regola con le disposizioni in materia di registrazione delle fatture e delle operazioni intracomunitarie, tralasciando di considerare, per converso, che era proprio il cedente a dover provare l’effettivo trasferimento della merce in un Paese comunitario.

La pronuncia
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12964 del 24 maggio, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e ha cassato la sentenza impugnata.
I giudici di legittimità hanno ricordato che il beneficio della non imponibilità ai fini Iva ricorre sempre che le cessioni abbiano le caratteristiche indicate dall’articolo 41 del Dl 331/1993, tra cui l’effettiva movimentazione del bene con partenza dall’Italia e arrivo in uno Stato membro dell’Unione europea, indipendentemente dal fatto che il trasporto o la spedizione siano effettuati dal cedente, dal cessionario o da terzi per loro conto.
In assenza dei presupposti normativamente indicati, le cessioni vengono assoggettate all’imposta nel territorio dello Stato.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha più volte avuto modo di precisare che l’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario (cioè l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro) grava sul contribuente cedente, che emette la fattura e non applica l’imposta nei confronti del cessionario (articolo 50, comma 1, Dl 331/1993), dichiarando che l’operazione non è imponibile (articolo 46, comma 2, Dl 331/1993).
Ciò, proprio in ragione del principio generale di cui all’articolo 2697 del codice civile, secondo il quale l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto, che legittimano la deroga al normale regime impositivo, è a carico di chi invoca la deroga (cfr Cassazione, sentenze 1670/2013, 13457/2012, 20575/2011, 3603/2009 e 21956/2010).

Nel caso di specie, dunque, la società cedente avrebbe dovuto fornire prova dell’avvenuto trasferimento della merce in altro Paese dell’Unione europea, trattandosi di un elemento strutturale della fattispecie normativa, la cui mancanza impedisce il riconoscimento dello stesso carattere “intracomunitario” dell’operazione (cfr Cassazione, sentenza 13457/2012) e fa venir meno il beneficio della non imponibilità.

Infatti, la Corte di cassazione (cfr Cassazione, sentenza 1670/2013), evocando le più recenti risoluzioni emanate dall’Agenzia delle Entrate (la n. 345/E del 2007 e la n. 477/E del 2008), pur avendo escluso che il cedente sia tenuto a svolgere attività investigative sulla movimentazione subita dai beni ceduti dopo che gli stessi siano stati consegnati al vettore incaricato dal cessionario, ha affermato che lo stesso ha il dovere “di impiegare la normale diligenza richiesta a un soggetto che pone in essere una transazione commerciale e, quindi, di verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte – Cassazione 13457/2012 –, dovendo questi procurarsi mezzi di prova adeguati alle necessità, capaci se non di dimostrare, quanto meno di non lasciare dubbi circa l’effettività dell’esportazione e circa la sua buona fede in ordine a tale dato. Ciò, peraltro, nella consapevolezza che la concreta individuazione delle condotte, che il cedente deve tenere (o astenersi dal tenere), perché lo si possa giudicare in buona fede nell’esecuzione di una cessione intracomunitaria non conclusasi con l’effettivo trasferimento dei beni ceduti nello Stato membro di destinazione, attiene a valutazioni riservate al giudice di merito in quanto inevitabilmente legate alle specifiche caratteristiche di ciascuna vicenda – Cassazione 8132/2011”.

In definitiva, non incombe sul cedente l’onere di escludere la prova della propria malafede, ma semmai di provare con ogni mezzo l’effettività dell’esportazione e, qualora sia invece provato e ammesso che tale esportazione non vi è stata, di dimostrare che il cedente è stato tratto in inganno nonostante avesse adottato le opportune cautele per evitare tale aggiramento.
Orbene, nel caso di specie, i giudici di appello non hanno applicato correttamente i principi appena espressi, motivo per cui i giudici di piazza Cavour hanno rinviato la causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.


Fonte: Agenzia Entrate

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