In caso di accertamento fondato sugli studi di settore, l'architetto libero professionista non può provare il suo reddito basandosi su quanto effettivamente incassato nell'anno d'imposta oggetto della contestazione, poichè non assume alcuna rilevanza il fatto che il compenso possa essere pagato anche in anni successivi alla prestazione.E' quanto si legge nella sentenza n. 16235 dello scorso 9 luglio, con cui la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate contro un architetto libero professionista, al quale era stato notificato avviso di accertamento sulla base dei parametri previsti dall'art. 3, comma 181, L. n. 549/1995, e del D.P.C.M. 29 gennaio 1996.

Nella specie, il contribuente impugnava in primo grado l'atto notificatogli sostenendone l’illegittimità per difetto di motivazione e per non essere i parametri utilizzati dall’Ufficio aderenti alla sua situazione economica, dato che il reddito dei professionisti viene a maturare per cassa e non per competenza, poichè il compenso può essere percepito anche negli anni successivi alla prestazione professionale.

La CTP adita accoglieva il ricorso e l’Ufficio finanziario proponeva appello, insistendo sulla legittima applicazione dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, e sul fatto che spetta al contribuente spiegare e dimostrare perchè il risultato raggiunto non sia aderente alla sua situazione economica.

La CTR rigettava l’appello, affermando che non erano sufficienti a sostenere la pretesa fiscale le sole presunzioni derivanti dall’applicazione dei parametri sulle categorie dei valori desunti dalla dichiarazione, ma che occorreva anche una motivazione che esprimesse dei collegamenti e riferimenti congrui fra i valori e la capacità contributiva del contribuente in un contesto periodico dell’andamento delle annualità precedenti e seguenti, in modo da porre quest’ultimo in condizione di conoscere gli indizi di cui dovrebbe dare la prova contraria.

Contro tale decisione l’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione.

Anzitutto, la S.C. osserva che il citato art. 3 stabilisce che "se i dati dichiarati non risultano compatibili con quelli indicati dall’applicazione dei coefficienti di cui all’art. 11" l’ufficio ha il potere di determinare induttivamente l’ammontare del reddito, nonchè quello di singoli componenti positivi o negativi di esso, sulla base di due o più coefficienti, o "di altri elementi specificamente relativi al singolo contribuente".

Ne deriva che, in caso di necessità, i coefficienti presuntivi possono essere integrati o addirittura sostituiti da elementi particolari, propri del contribuente sottoposto a verifica: i coefficienti forniscono un'indicazione, che già la stessa amministrazione può superare utilizzando altri elementi, che evidentemente costituiscono dei limiti per lo strumento presuntivo nella situazione concreta, con conseguente esclusione di ogni automatismo dei coefficienti e necessità di valutare sempre la situazione effettiva del contribuente.

Inoltre - si legge in sentenza - l’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 110/E/1999 ha sostenuto che "sulla base di elementi di valutazione direttamente acquisiti ovvero forniti dal contribuente in sede di contraddittorio, gli uffici avranno cura di adeguare il risultato della applicazione degli studi alla concreta particolare situazione dell’impresa, tenendo anche conto della localizzazione nell’ambito del territorio comunale non colta dalle elaborazioni dalle quali sono scaturiti gli studi di settore. Le osservazioni formulate dai contribuenti nel corso del contraddittorio andranno attentamente valutate motivando sia l’accoglimento che il rigetto delle stesse".

Peraltro, il Collegio sostiene che la flessibilità degli strumenti presuntivi trovi origine e fondamento proprio nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica, e ciò al fine di individuare la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la situazione concreta.

A conferma di ciò, l'art. 12, comma 7, L. n. 212/2000 (Statuto del contribuente) prevede un necessario contraddittorio anticipato attraverso il quale il contribuente possa fornire dati e richieste che l’Ufficio ha l’obbligo di valutare, confermando così l’esigenza che l’accertamento venga calibrato sempre al caso concreto, sulla base di una conoscenza piu’ approfondita della situazione verificata. Alla stregua dell’art. 12, la stessa amministrazione deve individuare gli elementi da utilizzare nel caso concreto, potendo addirittura disattendere i coefficienti quando esistono altri dati che evidentemente esprimono meglio la situazione concreta.

Non solo. Ammesso che i coefficienti presuntivi siano stati legittimamente utilizzati, resta il fatto che è ammessa la prova della inapplicabilità dei parametri al caso concreto, la quale non deve avere necessariamente collegamenti con dati documentali, ma può essere costituita, in assenza di indicazioni normative specifiche contrarie, anche da presunzioni che il Giudice nel suo prudente apprezzamento va a configurare e a valutare. La norma fa riferimento alle "specifiche condizioni di esercizio" dell’attività e lascia, quindi, ampio margine nella deduzione dei fatti impeditivi.

Pertanto, i giudici di legittimità si rifanno al principio di diritto già affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui "la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sè considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”.

Applicando tali considerazioni alla fattispecie in esame, la S.C. afferma che la CTR non si è adeguata ai suindicati principi, ma nell’affermare che il contribuente aveva ottemperato all’onere della prova che incombeva su di lui non ha in alcun modo dato atto o esplicitato quali fossero gli elementi probatori addotti da quest’ultimo per superare le presunzioni avanzate dall’Ufficio, facendo riferimento a generiche argomentazioni prive di qualunque concreta indicazione.

(Sentenza Cassazione civile 09/07/2010, n. 16235)


Fonte: IPSOA

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