Le autocertificazioni prodotte dal contribuente non hanno alcun valore probatorio, diversamente si finirebbe per introdurre nel processo tributario – in violazione del divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo.
Questo, in sintesi, il principio di diritto espresso dalla Corte suprema nella sentenza n.1290 del 26 gennaio 2015.

Fatto
La vicenda riguarda una società, svolgente attività di produzione e commercio di scope, spazzole e accessori, cui l’ufficio di Firenze aveva notificato un avviso di accertamento, ai fini Irpeg, Irap e Iva, per l’annualità 1999. Con il citato atto si contestava l’omessa contabilizzazione di componenti positivi, nello specifico cessione di beni strumentali (stampi).

Investita della questione, la Ctp di Firenze accoglieva le doglianze del contribuente.
Il verdetto veniva confermato anche in appello, dove i giudici di merito ritenevano “verosimile…. la rappresentanza politica di esternalizzazione delle lavorazioni e di riduzione dei relativi costi”.
Difatti, la società sosteneva di aver concesso in comodato verbale e gratuito a terzi produttori gli stampi, oggetto di rettifica, con cui si ottenevano i semilavorati poi acquistati dalla medesima contribuente.

La controversia approda in Cassazione su ricorso dell’Amministrazione finanziaria che eccepisce, per quanto qui d’interesse, la violazione dell’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992, laddove il giudice d’appello ha annullato l’atto perché le argomentazioni della società hanno trovato puntuale riscontro nelle dichiarazioni sostitutive prodotte in giudizio.

Decisione
La Corte suprema ha ritenuto la doglianza fondata.
I giudici di legittimità, muovendo da un orientamento consolidato, ricordano che “l’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà che, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di efficacia in sede giurisdizionale, trova, con specifico riguardo al contenzioso tributario, ostacolo invalicabile nella previsione dell’articolo 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/92, giacché finirebbe per introdurre nel processo tributario – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (cfr Cassazione, sentenze 703/2007, 16348 /2008, 6755/2010 e 1630/2013)”.
Nel caso di specie, “il giudice di merito”, si legge nella sentenza, “è giunto alla conclusione secondo cui non è intervenuta cessione dei beni sulla base quindi di mezzo probatorio vietato dall’ordinamento processuale tributario”.

A giudizio della Corte, l’apprezzamento di merito è da censurare, poiché basato sulle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà che, invece, vanno espunte, per espressa volontà del legislatore, dal processo decisionale, con la conseguenza che la Ctr della Toscana, in sede di rinvio, dovrà procedere a “una rivalutazione delle circostanze di fatto alla stregua delle residue risultanze istruttorie”.

Ulteriori osservazioni
Sulla valenza probatoria della dichiarazioni sostitutive di notorietà, la Corte di cassazione si è pronunciata più volte, ribandendo sempre lo stesso principio di diritto: l’autocertificazione non trova ingresso nel processo tributario.
Le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, anche se hanno attitudine certificativa e probatoria in alcune procedure amministrative, sono vietate nel processo tributario, per il limite invalicabile posto dall’articolo 7 del Dlgs 546/1992, comma 4, sul divieto di giuramento e prova testimoniale. ( Cassazione, sentenza 1663/2013).

Le stesse argomentazioni sono state prospettate in ordine alla facoltà del contribuente di provare che il reddito presunto in base al “redditometro” non esiste o esiste in misura inferiore. In questi casi, è stata esclusa la valenza probatoria delle autocertificazioni, ritenendo che “in base ai principi fissati dall’art. 38, comma 6…la prova delle liberalità che hanno consentito in tutto o in parte l’incremento patrimoniale deve essere documentale e conseguentemente la motivazione della sentenza deve fare preciso riferimento ai documenti che la sorreggono ed al loro contenuto, cfr. Cass. n. 11389 del 2008” (Cassazione, sentenza 24597/2010).

In pratica, il contribuente, per giustificare la propria capacità contributiva in ordine agli incrementi patrimoniali contestati, non può limitarsi a dire che le spese per l’acquisto di un bene sono state sostenute grazie a un prestito o a una liberalità ottenuti da congiunti, o che si tratti di bene abitualmente utilizzato dagli stessi congiunti.
Tali asserzioni non bastano a dimostrare la provenienza della provvista, occorrendo a tal fine una prova documentale certa, atta a collegare la stessa all’incremento patrimoniale realizzato; ad esempio, per gli incrementi di un certo ammontare, la tracciabilità del pagamento risponde a una esigenza che non può essere disattesa con la produzione in giudizio di una mera autocertificazione.

Per completezza, merita qui segnalare l’orientamento che invece riconosce effetti alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà posta in essere da soggetto estraneo alla controversia, dovendosi attribuire al medesimo lo stesso valore di indizio che viene riconosciuto alla scrittura privata proveniente da un terzo (Cassazione, sentenza 4495/2002).
Secondo l’insegnamento del Collegio, il “… divieto di assunzione di talune fonti di prova (giuramento e prova testimoniale) non implica l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione (ovvero rese in favore del contribuente) nella fase procedimentale e rese da soggetti terzi rispetto al rapporto giuridico d’imposta dovendosi attribuire alle medesime valenza di elementi indiziari che, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza, possono assumere natura di presunzione anche ove desumibili dall’utilizzo come fonte di atti di un giudizio civile o penale” (Cassazione, sentenze 4423/2003, 7445/ 2003 e 12763/2011).
A parere di questa giurisprudenza, in attuazione dell'articolo 111 della Costituzione (che regola il giusto processo e che afferma solennemente il principio della parità delle parti), il contribuente “al pari dell'amministrazione finanziaria,” può introdurre nel giudizio tributario le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale; “queste hanno il valore di elementi indiziari che - non potendo costituire da soli il fondamento della decisione - necessitano di essere valutati assieme ad altri elementi”.

In conclusione, il divieto posto dal citato articolo 7, comma 4, riguarda le sole autocertificazioni prodotte dal contribuente, potendo delinearsi per le dichiarazioni sostitutive di terzi, anche al fine di garantire l’effettività del diritto di difesa, una differente valenza giuridica, se pur relegata al mero indizio.


Fonte: Agenzia Entrate

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