L’apparente regolarità contabile delle fatture d’acquisto, emesse da una società cartiera, non impedisce all’Amministrazione finanziaria di contestare il coinvolgimento del contribuente nella “frode carosello”. A tal fine, vengono reputati “decisivi” a provare la frode gli elementi offerti dall’ufficio.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 23324 del 31 ottobre.

Il fatto
A seguito dell’annullamento di un avviso di accertamento Irpef, emesso nei confronti di una Snc e dei relativi soci, per l’acquisto di un’autovettura da una società inesistente, veniva anche respinto l’appello dell’ente impositore, ritenendo la Commissione tributaria regionale che, siccome la fattura di acquisto dell’autovettura risultava essere stata regolarmente contabilizzata ai fini dell’Iva, l’ufficio non avesse dimostrato l’inclusione dell’operazione soggettivamente inesistente nella più ampia attività fraudolenta effettuata dalla società cartiera.

Nel conseguente ricorso per cassazione, l’ente impositore ha dedotto violazione di legge (articoli 21, comma 7, e 23, Dpr 633/1972) e insufficiente motivazione, in quanto la sentenza impugnata ha tralasciato di considerare i plurimi elementi offerti dall’ufficio a sostegno del carattere fittizio della società cedente il mezzo in questione.

La decisione
Ed è proprio la censura di insufficiente motivazione che viene ritenuta meritevole di accoglimento dalla suprema Corte, atteso che l’apparente regolarità contabile delle fatture di acquisto, emesse dalla società cartiera, non impedisce all’Amministrazione finanziaria di contestare il coinvolgimento del contribuente nella “frode carosello”.
Sicché l’ufficio, provati gli elementi di fatto della frode, attinenti al cedente, dovrà dimostrare la connivenza del cessionario non necessariamente con prova certa e incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici. Ovvero basterà esporre nella motivazione dell’accertamento elementi obiettivi sull’inesistenza del contraente, tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore “onesto” e “mediamente esperto”.

Al riguardo, si ricorda che la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa (articolo 21 del Dpr 633/1972 e articolo 226 della direttiva 2006/112/Ce), purché sia redatta in conformità ai requisiti di forma e di contenuto prescritti, tra i quali l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo dell’operazione (cfr Cassazione 15395/2008).
A fronte dell’esibizione della fattura, spetta all’ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per la detrazione dell’Iva (articolo 19, Dpr 633/1972).
Trattandosi di principi generali in tema di prova, questa può consistere in presunzioni semplici, ex articolo 39, Dpr 600/1973, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento (cfr Cassazione 9108/2012).

In relazione al caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente è stato realmente destinatario), l’Iva, in linea di principio, non è detraibile.
L’imposta è stata, infatti, versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento del tributo: non entrano, cioè, nel conteggio del dare e avere, ai fini Iva, le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, che, per quanto lo riguarda, risultano inesistenti, e a nulla rileva che le medesime fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti.
Il versamento dell’Iva a un soggetto che non sia la genuina controparte – aprendo la strada a un indebito recupero dell’imposta – è, quindi, evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva, essendo questo finalizzato a che l’imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, perché la compensi con l’imposta, a sua volta, corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi (cfr Cassazione 5719/2007, 29467/2008, 23987/2009, 73582010, 4750/2010, 8132/2011, 7672/2012, 15741/2012, 24430/2013 e 4614/2014).

È poi evidente che, in caso di accertata assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno (cfr Cassazione 24430/2013).
Così, nel caso di specie, constatato che la sentenza impugnata non è in linea con i principi espressi (cfr Cassazione 23560/2012), il giudice di legittimità reputa “decisivi”, a provare la frode, gli elementi offerti dall’ufficio:
l’inesistenza di locali idonei a commerciare autovetture da parte della società fatturante
l’assenza di una struttura commerciale
l’omissione di versamenti Iva
la vendita operata dalla cedente a prezzo inferiore a quello di acquisto dello stesso bene da fornitore comunitario.


Fonte: Agenzia Entrate

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