Con la sentenza 4 settembre 2014, causa n. C-21/13, la Corte di giustizia si è pronunciata in merito all’accertamento della sussistenza degli elementi costitutivi dell’elusione dei dazi antidumping, nel caso in cui le istituzioni dell’Unione europea riscontrino il rifiuto di collaborazione delle autorità e delle parti interessate.
La questione rivolta alla Corte verte, in particolare, sulla validità del regolamento (Ce) n. 499/2009, dell’11 giugno 2009, che estende il dazio antidumping definitivo, istituito dal regolamento (Ce) n. 1174/2005, del 18 giugno 2005, relativo alle importazioni di transpallet manuali e loro componenti essenziali originari della Repubblica popolare cinese, alle importazioni dello stesso prodotto spedito dalla Tailandia, indipendentemente dal fatto che sia dichiarato o no originario della Tailandia.
Al riguardo, è stato chiesto ai giudici comunitari se il regolamento contestato debba ritenersi invalido a causa del fatto che le istituzioni comunitarie non avrebbero adeguatamente dimostrato la sussistenza di un’elusione del dazio antidumping – ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento (Ce) n. 384/96, del 22 dicembre 1995, relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di paesi non membri della Comunità europea – non avendo comprovato, in assenza di cooperazione da parte degli esportatori tailandesi, da una parte, la modificazione della struttura degli scambi tra i paesi terzi e l’Unione e, dall’altra, l’esistenza di pratiche, processi o lavorazioni, per i quali non esiste una sufficiente motivazione o giustificazione economica oltre all’istituzione del dazio antidumping.

Con riferimento all’elusione delle misure antidumping, occorre preliminarmente ricordare che l’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento n. 384/96 sopracitato dispone che essa consiste in “una modificazione della configurazione degli scambi tra i paesi terzi e la Comunità … che derivi da pratiche, processi o lavorazioni per i quali non vi sia una sufficiente motivazione o giustificazione economica oltre all’istituzione del dazio, in presenza di elementi che attestano che sussiste un pregiudizio oppure che gli effetti riparatori del dazio in termini di prezzi e/o di quantitativi di prodotti simili risultano indeboliti …”.
Secondo il paragrafo 3 del medesimo articolo 13, spetta alla Commissione avviare un’inchiesta sulla base di elementi di prova che lascino apparire a prima vista pratiche di elusione; se i fatti accertati nel corso di tale inchiesta consentono di concludere che l’elusione sussiste, la Commissione propone al Consiglio l’estensione delle misure antidumping.

Va detto, peraltro, che nessuna disposizione del regolamento n. 384/96 conferisce alla Commissione, nell’ambito di un’inchiesta sull’esistenza di un’elusione, il potere di obbligare i produttori o gli esportatori destinatari di una denuncia a partecipare all’inchiesta o a produrre informazioni: in sostanza, quindi, la cooperazione delle parti interessate a fornire alla Commissione le informazioni necessarie ha natura volontaria. È questo il motivo per cui il legislatore comunitario, da un lato, ha previsto (cfr articolo 18, paragrafo 1, regolamento n. 384/96) che, “qualora una parte interessata rifiuti l’accesso alle informazioni necessarie oppure non le comunichi … oppure ostacoli gravemente l’inchiesta, possono essere elaborate conclusioni provvisorie o definitive, affermative o negative, in base ai dati disponibili” e, dall’altro, ha precisato (articolo 18, paragrafo 6, dello stesso regolamento) che, qualora una parte interessata non collabori o collabori solo parzialmente, impedendo in tal modo l’accesso a informazioni rilevanti, l’esito dell’inchiesta può essere per essa meno favorevole che nell’ipotesi della collaborazione.

Al riguardo, la Corte di giustizia ha osservato che dalle richiamate disposizioni dell’articolo 18 del regolamento n. 384/96 risulta che il legislatore comunitario non ha inteso stabilire una presunzione legale che consenta di dedurre direttamente dal difetto di cooperazione delle parti interessate o coinvolte l’esistenza di un’elusione e che, quindi, dispensi le istituzioni dell’Unione da qualsiasi esigenza di prova; tuttavia, tenuto conto della possibilità di trarre conclusioni, anche definitive, sulla base dei dati disponibili e di trattare la parte che non coopera o che coopera solo parzialmente in modo meno favorevole che se avesse cooperato, risulta altrettanto evidente che le istituzioni dell’Unione sono autorizzate a basarsi su un insieme di indizi concordanti che consentano di concludere per l’esistenza di un’elusione ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento di base. Qualsiasi altra soluzione rischierebbe di compromettere, infatti, l’efficacia delle misure di difesa commerciale dell’Unione europea tutte le volte che le istituzioni comunitarie devono confrontarsi con il rifiuto di cooperazione nell’ambito di un’inchiesta diretta ad accertare un’elusione.

Nel caso di specie, la Corte rileva che la Commissione aveva informato le autorità cinesi e tailandesi, i produttori-esportatori e gli importatori comunitari interessati, nonché l’industria comunitaria, dell’avvio dell’inchiesta sull’elusione; inoltre, a detti produttori-esportatori e importatori comunitari erano stati inviati dei questionari, mediante i quali questi ultimi hanno avuto la possibilità di far conoscere il loro punto di vista e di essere sentiti dalla Commissione. A causa del rifiuto di collaborare di detti interessati, volume e valore delle esportazioni tailandesi e cinesi dei transpallet manuali verso l’Unione sono stati determinati dal Consiglio in base alle sole informazioni disponibili, in questo caso rappresentate dai dati statistici rilevati dagli Stati membri e raccolti dalla Commissione, nonché dai dati forniti da Eurostat.

Sul punto, la Corte ha concluso che il Consiglio ha sufficientemente dimostrato una modificazione della configurazione degli scambi tra la Cina, la Tailandia e l’Unione, dal momento che – da un lato – la definizione di “elusione” di cui all’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento n. 384/96 è formulata in termini assai generali, che lasciano un ampio margine discrezionale alle istituzioni dell’Unione, mentre – dall’altro – non viene fornita alcuna precisazione in merito alla natura e alle modalità della “modificazione della configurazione degli scambi tra i paesi terzi e la Comunità”.

Inoltre, la Corte ha aggiunto che, nella fattispecie, le istituzioni comunitarie si sono correttamente basate su un insieme di indizi concordanti: esse hanno, cioè, constatato che la modificazione della configurazione degli scambi tra la Tailandia e l’Unione è iniziata subito dopo l’istituzione del dazio antidumping sulle importazioni provenienti dalla Cina; tale coincidenza nel tempo costituisce un indizio importante che consente di stabilire un nesso logico e ragionevole tra il considerevole aumento delle importazioni provenienti dalla Tailandia e l’istituzione del dazio antidumping.

Secondo i giudici comunitari, proprio nel contesto di una situazione caratterizzata dal rifiuto totale di cooperazione da parte delle imprese e delle autorità nazionali interessate nel corso dell’inchiesta sull’elusione, le istituzioni dell’Unione erano quindi legittimate a basarsi su indizi nel concludere per l’esistenza di pratiche, processi o lavorazioni in Tailandia diretti esclusivamente a eludere il dazio antidumping che colpiva le importazioni originarie della Cina: in tali condizioni, infatti, spettava alle parti interessate fornire la prova di un motivo plausibile a giustificazione di dette attività, al di là di quello di sottrarsi al dazio antidumping suddetto.

In conclusione, la Corte ha confermato la validità del regolamento n. 499/2009 contestato, ritenendo che il Consiglio non ha commesso alcun errore manifesto nella valutazione dei fatti considerati alla base dell’accertamento dell’elusione delle misure antidumping, ai sensi dell’articolo 13 del regolamento n. 384/96.


Fonte: Assonime

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