La Suprema corte (pronunce n. 12763 e 12769 del 2014) conferma la propria giurisprudenza sull’esclusione della necessaria installazione o del funzionamento degli impianti di depurazione delle acque reflue in riferimento alla legittimazione della richiesta del Comune del pagamento della relativa tassa di depurazione prevista dagli articoli 16 e seguenti della legge n. 319 del 1976, in vigore fino al 3 ottobre 2000, quando è stata sostituita dal canone per il servizio idrico integrato.
In questo senso, si veda la sentenza della Cassazione 4 gennaio 2005, n. 96, per la quale il servizio di depurazione delle acque reflue costituisce un servizio pubblico irrinunciabile, che gli enti gestori sono tenuti a istituire per legge. Tale conclusione è stata resa in riferimento alla cennata legge del 1974, dalla quale i giudici di legittimità, nella sentenza che si annota, hanno tratto la conseguenza che la tassa per i servizi di depurazione delle acque reflue è dovuto indipendentemente non solo dall’effettiva utilizzazione del servizio, ma anche dalla istituzione di esso o dall’esistenza dell’allacciamento fognario a esso della singola utenza.

La questione oggetto dell’intervento della Corte regolatrice del diritto concerne un profilo particolare emergente dalla circostanza che lo stabilimento provvedeva a scaricare le acque reflue in un canale, il quale era tributario di un collettore appartenente al consorzio di bonifica, ente non territoriale al quale la società contribuente corrispondeva il relativo contributo, la cui presenza aveva indotto i giudici di primo e di secondo grado a escludere la debenza del canone di depurazione per evitare una doppia imposizione.

Il Comune opponeva che il presupposto della tassa di depurazione delle acque reflue era da individuare nel mero allacciamento alla rete fognaria e che il trasferimento al Comune dell’alveo suddetto e di tutti i relativi canali era avvenuto con un decreto ministeriale esecutivo della legge n. 559 del 1993, ma la Commissione tributaria regionale evidenziò, in primo luogo, che dal Tribunale superiore delle acque era stato accertato che l’alveo e i suoi affluenti avevano conservato la natura di canali di bonifica ricadenti nel comprensorio delle paludi.

In secondo luogo, e ancora in fatto, fu attestato che alcuna “sdemanializzazione” era stata documentata con riferimento a tali canali, i quali permanevano nel patrimonio della Provincia e non del Comune e, infine, che “l'effettuazione di opere di infrastruttura primaria, quanto al regime delle acque, non poteva costituire elemento idoneo a mutare la titolarità del diritto sull'alveo, giacché questo era comunque destinato a ricevere acque non confondibili con quelle di scarico, cui associare l'applicazione del contributo”.

L’accertamento in fatto che le acque reflue scorrevano nel Fosso appartenente al consorzio di bonifica e che al consorzio era stato già pagato il contributo, non determina, come ben rileva la decisione della Cassazione in rassegna, che la società risulti soggetta per lo stesso presupposto a una duplice tassazione, in quanto, ancorché non detto espressis verbis dai giudici di legittimità, i tributi sono due: uno per la depurazione, l’altro per la canalizzazione delle acque. In questo senso, si veda quanto affermato dalla Suprema corte nella sentenza 17 febbraio 2010, n. 3718, secondo cui dal riconoscimento della natura e funzione di collettore di smaltimento di scarichi fognari deve trarsi la logica conseguenza che il canone di fognatura e depurazione era dovuto perché non escluso dalla concorrente funzione di drenaggio delle acque meteoriche e di falda proprie delle opere di bonifica.

Pertanto, due presupposti d’imposta diversi sullo stesso bene (nel caso di specie, alveo) non determinano alcuna doppia imposizione, a nulla rilevando che vengono a incidere sullo stesso bene, come d’altronde usuale nell’ordinamento italiano (si pensi, ad esempio, agli immobili soggetti a Ici/Imu e imposte personali).

Infine, è da tenere conto che la natura tributaria della tassa per la depurazione delle acque reflue è stata riconosciuta dalla Consulta 8 ottobre 2008, n. 335, la quale ha aggiunto che nel sistema delineato dalla legge n. 36 del 1994 la tariffa del servizio idrico integrato, articolato in tutte le sue componenti – e, quindi, anche quella relativa al servizio di depurazione – ha natura di corrispettivo di prestazioni contrattuali e non di tributo.

Da ciò, i giudici di legittimità costituzionale hanno desunto che è costituzionalmente illegittimo vuoi l’articolo 14, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’articolo 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti, vuoi l’articolo 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti in ogni caso.

Infatti, come noto, dal 3 ottobre 2000, la tassa è stata sostituita dalla tariffa del servizio idrico integrato, della quale una quota è riferita al servizio di depurazione, quota che la decisione in nota qualifica in termini di “corrispettivo di una prestazione commerciale complessa che, per quanto determinata nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell'utente, bensì nel contratto di utenza”, per effetto dell’articolo 24 del Dlgs 18 agosto 2000, n. 258, che ha soppresso l’articolo 62, commi 5 e 6 del Dlgs 11 maggio 1999, n. 152, i quali avevano posticipato l’entrata in vigore della legge 5 gennaio 1994, n. 36, istitutiva del servizio idrico integrato.


Fonte: Agenzia Entrate

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