Respinto, dalla Ctr Toscana, l’appello di due coniugi che avevano impugnato gli avvisi di accertamento con cui, a seguito di indagini bancarie, erano state complessivamente accertate maggiori imposte e sanzioni per più di 1,5 milioni di euro (sentenza 1567/13/14).
La presenza di rilevanti anomalie nella situazione reddituale dei contribuenti, nonché la circostanza che uno di essi era stato rinviato a giudizio per il reato di usura, avevano infatti indotto l’ufficio a ricorrere a indagini finanziarie.
La Ctr ha ritenuto che la documentazione, prodotta in appello, non fosse né idonea né sufficiente a superare la presunzione iuris tantum, prevista dall’articolo 32 del Dpr 600/1973, non fornendo gli elementi di ordine sostanziale che, in modo analitico e specifico, avrebbero dovuto attestare che le operazioni bancarie individuate non producevano imponibile.

L’istruttoria
Con quattro ricorsi separati, ritualmente riuniti, due coniugi hanno impugnato gli avvisi di accertamento, con cui l’Agenzia delle Entrate di Firenze, a seguito di indagini bancarie, aveva accertato, complessivamente, maggiori imposte e sanzioni per oltre 1,5 milioni di euro.
La presenza di rilevanti anomalie nella situazione reddituale dei contribuenti, nonché la circostanza che uno di essi era stato rinviato a giudizio per i reati di usura continuata e estorsione avevano infatti indotto l’ufficio a ricorrere a indagini finanziarie.

L’attività istruttoria ha avuto inizio con un questionario, al fine di verificare, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 38 del Dpr 600/1973, la congruità dei dati dichiarati dal contribuente con gli indici di capacità contributiva, dallo stesso posseduti, negli anni di imposta 2005/2006, e successivamente confrontato e arricchito con le informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria, desunte dalla banca dati dell’Anagrafe tributaria.
Nel questionario il contribuente ha indicato, per gli anni oggetto del controllo, rilevanti indici di capacità contributiva, a cui si aggiungevano gli incrementi patrimoniali per il valore corrispondente alle automobili di marca prestigiosa e di grossa cilindrata acquistate, al netto del valore delle macchine vendute e/o date in permuta.

Una volta acquisiti tali dati, l’ufficio tributario ha provveduto dunque a confrontare il tenore di vita manifestato dal contribuente con la capacità reddituale dallo stesso dichiarata.
Da questo controllo è emerso però che, negli anni di imposta dal 2002 al 2006, non aveva percepito e/o dichiarato alcun reddito.
Al fine allora di avere un quadro completo, l’ufficio ha provveduto ad analizzare la situazione economica/reddituale del gruppo familiare negli anni oggetto della verifica fiscale e in quelli antecedenti e successivi. Dall’istruttoria è emerso che il coniuge, dal 1998 al 2007, aveva percepito redditi da lavoro dipendente per solo 8mila euro circa all’anno.
A fronte della capacità reddituale dichiarata dai singoli componenti il nucleo familiare, l’istruttoria si è spostata quindi sul confronto con la capacità di spesa manifestata nel corso degli anni e anche, in questo caso, con gli esborsi che, a fronte di un reddito pari a zero, erano senz’altro eccessivi.
Nel corso dell’istruttoria è poi emerso che uno dei coniugi era stato indagato e rinviato a giudizio per i reati di usura continuata e in concorso (articoli 644, 81 e 110 del codice penale.) ed estorsione (articolo 629 cp).

Per tutti questi motivi, nell’ambito del potere discrezionale di cui è dotata, l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto di utilizzare lo strumento delle indagini finanziarie e di estendere il controllo alle annualità 2004/2007 e da questo è risultato che i coniugi operavano su due conti correnti bancari.
L’ufficio, allora, ha notificato appositi questionari ai contribuenti, chiedendo loro di giustificare le movimentazioni bancarie relative ai conti correnti individuati. Questi, però, non sono riusciti a giustificare tali operazioni e pertanto sono stati emessi gli avvisi di accertamento, poi impugnati.

Il giudizio di primo grado
Alla prima udienza, la Commissione tributaria provinciale ha disposto una Ctu (consulenza tecnica d’ufficio) per accertare se la documentazione degli estratti conto in atti poteva consentire di confermare la tesi della “ricarica” periodica del capitale, dedotta dai ricorrenti a giustificazione del maggior imponibile evidenziato sulla base della presunzione legale relativa ex articolo 32, Dpr 600/1973, e se, eventualmente, sussisteva (e in che misura) la duplicazione dei versamenti.
Terminata la perizia e depositate le memorie illustrative sulle operazioni peritali, la causa veniva posta in discussione.

La Commissione tributaria provinciale ha respinto quasi in toto i ricorsi dei contribuenti, rilevando la legittimità dell’operato dell’ufficio fiscale e rideterminando, in minima parte, solo nel quantum, l’iniziale pretesa erariale.
In particolare, per ciò che concerneva il merito, i primi giudici hanno rigettato la tesi del capital revolving come illustrata dalla parte ricorrente, in quanto non avvalorata da precisi e concreti dati contabili.
Avuta, infatti, la conferma da parte del Ctu dell’impossibilità di procedere alla verifica, concreta e fattuale, della tesi del capital revolving per l’assorbente e decisiva ragione che la gran parte degli assegni, in entrata e in uscita dai conti correnti esaminati, erano assegni al portatore o recanti la girata “mio proprio” o equivalenti, la Commissione di primo grado ha affermato che “tanto il calcolo elaborato - sul mero piano tecnico, salva la decisione in diritto riservata alla Commissione - dal Ctu (calcolo operato per massa di addebiti e accrediti) quanto il calcolo proposto dal Ctp dei ricorrenti (calcolo dei saldi per valuta massimi e medi) si risolvono in meri calcoli di natura teorico-possibilistica che non sono supportati da concreti dati documentali. E poiché la menzionata ragione ostativa ad un’analisi concreta e completa è dovuta a fatto imputabile al … (emissione di assegni al portatore; assegni recanti la girata ‘mio proprio’), ne deriva che i ricorrenti non possono che imputare a loro stessi l’impossibilità di superare la presunzione legale di cui all’articolo 32 Dpr 600/1973”.

La Commissione tributaria provinciale ha invece accolto parzialmente l’ultimo motivo di ricorso, in quanto il Ctu accertava delle duplicazioni di assegni che determinavano una (invero minima) duplicazione della base imponibile.
Il contribuente ha, quindi, proposto appello, ripetendo sostanziamente le stesse considerazioni già avanzate dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, mentre l’ufficio finanziario ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado e, per l’effetto, rinunciava al proseguimento del contenzioso per la parte in cui era risultato soccombente.

Il giudizio di secondo grado e la decisione della Ctr
L’Amministrazione fiscale ha evidenziato, in particolare, anche in secondo grado, che la scelta di avvalersi dello strumento delineato dall’articolo 32, comma 1, n. 7, Dpr 600/1973 (che trova un suo omologo, ai fini Iva, nell’articolo 51, Dpr 633/1972) rientrava nell’ambito di una valutazione discrezionale della Pa.
La disposizione citata non circoscrive infatti l’utilizzo delle indagini finanziarie a specifiche condizioni o limiti (come ad esempio, la circostanza che il contribuente accertato sia imprenditore o lavoratore autonomo), statuendo incondizionatamente che: “Per l’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono: […] n. 7) richiedere, previa autorizzazione …, alle banche …, dati e notizie …”. La scelta di esercitare uno dei poteri di cui all’articolo 32 del Dpr 600/1973, piuttosto che un altro, è quindi insindacabile, non essendo richiesta una specifica motivazione; è unicamente necessario che i suddetti poteri siano esercitati da parte degli uffici “per l’adempimento dei loro compiti”.

In questa prospettiva, quindi, stante la natura discrezionale della scelta di impiegare una simile tecnica di indagine, non potevano essere presi in esame i rilievi formulati dall’istante, in ordine al fatto che la situazione patrimoniale del contribuente non giustificasse alcuna indagine: ciò che contava era che la Pa, sulla scorta degli elementi raccolti, avesse ritenuto proficuo avvalersi delle indagini bancarie e avesse agito nel pieno rispetto delle procedure delineate dalle disposizioni normative. Del resto, come visto, non era in realtà neppure contestabile che la situazione del contribuente destasse qualche “sospetto”, rilevandosi sotto molteplici aspetti sintomatica di evasione.

Del resto, l’indagine finanziaria, nell’ambito degli strumenti accertativi concessi agli uffici dalla Legge, è finalizzata all’individuazione di flussi finanziari atti a rivelare l’esistenza di materiale imponibile sottratto a ogni altra rilevazione. E ciò è possibile in virtù della presunzione legale relativa posta dagli articoli 32, comma 1, del Dpr 600/1973, e 51, comma 2, del Dpr 633/1972, in base ai quali le risultanze dei conti si considerano imponibili qualora il ricorrente non dimostri il contrario ovvero di averne già tenuto conto nella determinazione dell’imponibile o la loro irrilevanza a tal fine.

La presunzione legale iuris tantum, fissata dalle norme citate, assorbe, dunque, l’onere probatorio spettante all’ufficio: dimostrato cioè il fatto (le movimentazioni finanziarie), spetta al contribuente provare che i movimenti finanziari sono fiscalmente irrilevanti (in tal senso, vedi, ex pluribus, Cassazione 16650/2011, 11750/2008, 19216/2007 e 18868/2007, che richiama numerosi precedenti della giurisprudenza di legittimità sul punto).
In altri termini, l’ufficio finanziario, una volta che abbia acquisito i dati relativi alle movimentazioni sui conti riferibili al contribuente, può legittimamente porre tali dati a fondamento dell’accertamento, senza dover dimostrare più nulla, incombendo a questo punto sul contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti finanziari riguardano attività estranee a quelle imponibili o si riferiscono ad attività che trovano riscontro nella documentazione contabile (cfr Cassazione 26692/2005).

Per vincere questa presunzione a favore del Fisco, il contribuente deve dunque dimostrare una sicura e diversa destinazione o natura delle somme transitate sui conti. È bene, infatti, sottolineare come questa presunzione, per quanto relativa, sia dotata di un notevole spessore probatorio, derivando dall’individuazione di dati economici ben definiti nella loro quantità (in termini, cfr Cassazione 9946/2000).
Alla presunzione di legge va dunque contrapposta una prova dettagliata e circostanziata e non una presunzione semplice, ovvero una mera affermazione di carattere generale.
Si tratta, in sostanza, di una prova contraria specifica, che deve essere data con riferimento a ciascuna movimentazione, così come chiarito anche dal giudice di legittimità, che, nel confermare la consolidata interpretazione sviluppatasi sull’articolo 32, comma 1, n. 2, Dpr 600/1973, afferma che “La presunzione di cui alla disciplina dell’accertamento relativo alle indagini finanziarie ha un contenuto complesso e può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili. La prova che il contribuente è tenuto a dare della non riferibilità ad operazioni imponibili deve essere specifica e riguardare analiticamente i singoli movimenti bancari, tale cioè da dimostrare che ciascuna delle operazioni effettuate è estranea a fatti imponibili” (cfr Cassazione 19888/2011).

Ebbene, nel caso che ci occupa, l’appellante, come poi confermato nella sentenza in commento, non è stato in grado, né nel corso del contraddittorio con l’ufficio né in sede contenziosa, di produrre alcun elemento in tal senso.
Correttamente, quindi, la Commissione tributaria regionale, dopo aver evidenziato di non aver inteso concedere al contribuente alcun rinvio per l’acquisizione di documentazione, in quanto “poteva essere richiesta fin dal 2011, addirittura nella fase amministrativa, per cui l’addotta mancata ricezione dei documenti non può configurare un impedimento non imputabile al comportamento della parte privata”, ha riconosciuto che “la documentazione che la parte privata ha prodotto in grado di appello non sposta le conclusioni del Ctu, rimanendo incontrovertibile che con la produzione di fotocopie di assegni negoziati a se stesso o di generici saldaconto non ha giustificato le anomale movimentazioni acclarate con le indagini bancarie”.
Secondo i giudici di secondo grado, infatti, “tali prospetti contabili non sono sufficienti a dimostrare i rapporti sostanziali delle varie operazioni elencate, per cui non sono idonei a superare la presunzione iuris tantum prevista dall’articolo 32 Dpr n. 600/73, perché per l’appunto non forniscono gli elementi di ordine sostanziale che in modo analitico e specifico avrebbero dovuto attestare che dette operazioni bancarie non producevano imponibile” e dunque “i motivi di gravame vanno interamente rigettati, in quanto meramente teorici, qualificabili alla stregua di semplici indizi, inidonei a fornire la prova contraria richiesta …”.

Quanto poi al fatto che gli appellanti hanno richiamato anche le risultanze del processo penale, che aveva visto imputato (e condannato in primo grado) per il reato di usura uno dei contribuenti, l’ufficio ha evidenziato che il tribunale aveva condannato uno dei coniugi a due anni e sei mesi di reclusione per aver commesso il reato di usura nei confronti di molti soggetti e, dunque, la tesi del contribuente secondo cui, proprio sulla scorta di quanto emerso dall’indagine penale, i prestiti concessi erano tesi semplicemente a ottenere in cambio esigue remunerazioni, era palesemente smentita nei fatti, dato che, in realtà, l’analisi dei documenti e della situazione dei debitori avevano portato la Guardia di finanza, prima, e i giudici penali, poi, a ritenere che i tassi praticati dal ricorrente fossero particolarmente elevati.

Anche con riferimento all’altro coniuge, del resto, la decisione del tribunale penale non ha accertato certo la sua estraneità alla gestione dei conti correnti, limitandosi a decidere sui capi d’accusa per cui era stato disposto il rinvio a giudizio e non esistendo nella motivazione della sentenza alcun riferimento diretto o indiretto all’altro coniuge, se non quando i giudici riportano l’analisi effettuata dalla Guardia di finanza sulla situazione reddituale della famiglia dell’imputato.

E comunque, alla luce di quanto esposto, la ricostruzione offerta dalla parte non poteva ritenersi dimostrata: indipendentemente, infatti, dalla valutazione penale della condotta, come detto, non era stata prodotta alcuna documentazione atta a ricostruire nei minimi dettagli le operazioni di cambio assegni, con l’indicazione esatta del compenso percepito o meglio del tasso applicato in relazione all’importo, ai giorni concessi al debitore per la restituzione.
Anche tale tesi è stata condivisa dalla Commissione tributaria regionale, la quale ha concluso affermando che, a prescindere dal fatto che l’efficacia del giudicato penale non è vincolante nel processo tributario, i giudici di primo grado hanno correttamente disatteso il ricorso dei contribuenti, dato che “non è l’Agenzia delle Entrate che deve fornire la prova di un flusso così ingente di denaro”, dovendo essere invece il contribuente a “provare che tali somme di denaro erano estranee a fatti imponibili”.

Per tutti tali motivi, i giudici di secondo grado hanno respinto l’appello dei contribuenti, condannandoli anche al pagamento delle spese di giudizio.


Fonte: Agenzia Entrate

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