Nei confronti del commercialista della società incriminata di evasione fiscale scatta la misura cautelare del sequestro preventivo anche in assenza di indizi gravi di colpevolezza, essendo sufficiente soltanto il fumus criminis ovvero il sospetto di partecipazione all’illecito tributario.
È quanto si desume dalla sentenza della Corte di cassazione n. 36734 del 3 settembre.

La vicenda processuale
Il Tribunale del riesame, ritenuta la sussistenza del fumus commissi delicti, confermava il provvedimento cautelare di sequestro preventivo strumentale alla confisca per equivalente disposto dal Gip nei confronti dei beni di un commercialista, indagato per aver concorso, insieme al rappresentante legale di una società sua cliente, nella realizzazione di una frode fiscale attuata mediante l’emissione di fatture relative a operazioni inesistenti per consentire a terzi l’evasione delle imposte sul valore aggiunto, nonché, nella qualità di amministratore di società, di aver presentato dichiarazioni fiscali false mediante l’utilizzo di fatture relative a operazioni inesistenti.

L’imputato ricorreva in Cassazione lamentando, oltre al difetto di motivazione del provvedimento impugnato, l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza.

La pronuncia della Cassazione
I giudici di legittimità investiti della questione hanno chiarito che, in tema di sequestro preventivo, non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto.
A parere dei magistrati della Corte suprema, invero, “anche in tema di sequestro afferente a reati di natura tributaria – la finalità della misura cautelare è di tipo sanzionatorio – ablatorio. Attesa tale specifica finalità il sequestro per equivalente non richiede la dimostrazione dell’esistenza di specifiche esigenze cautelari, essendo sufficiente soltanto il fumus criminis e la corrispondenza del valore dei beni oggetto del sequestro e il profitto o il prezzo dell’ipotizzato reato tributario”.

Ne è derivato il rigetto del ricorso, ritenuto infondato, con condanna altresì alle spese processuali.

Osservazioni
In via preliminare, la Corte suprema, richiamando quanto più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, ha ammesso la possibilità del ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio, ancorché esso vada limitato al vizio di violazione di legge. Detto vizio, invero, ricorre sia nelle ipotesi di errore in iudicando o in procedendo, sia qualora vengono in rilievo vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Cassazione penale, sentenza 43068/2009; Cassazione, sentenza 1437/2014).
Nel caso di specie, è stato fermamente escluso che la motivazione del provvedimento impugnato sia solamente apparente ovvero tale da non esplicitare le ragioni della decisione assunta.

Quanto alla valutazione inerente la sussistenza dei presupposti di legittimità della misura cautelare emessa, di cui la difesa ne ha chiesto l’annullamento, la Cassazione in diversi pronunciamenti ha ricordato che, anche se in materia di sequestro preventivo il codice di rito non richieda l’acquisizione di un quadro probatorio serio come per le misure cautelari personali, è in ogni caso necessario valutare le concrete risultanze istruttorie per ricostruire la vicenda anche al semplice livello di “fumus”, al fine di ritenere che la fattispecie concreta vada ricondotta alla figura di reato configurata. Altresì, dovranno aggiungersi le valutazioni in tema di periculum in mora, da riferire necessariamente a un concreto pericolo di prosecuzione dell’attività delittuosa ovvero a una concreta possibilità di condanna e, quindi, di confisca.

Come ribadito anche dalle sezioni unite, in materia di sequestro, la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del riesame o della Corte di cassazione non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta alle indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza e alla gravità degli stessi (Cassazione, sezioni unite, sentenza 7/2000; Cassazione, sentenza 5656/2014).

È proprio la natura sanzionatoria-ablatoria del sequestro afferente ai reati tributari a non richiedere specifiche esigenze cautelari, rendendo sufficiente il solo fumus criminis e la corrispondenza tra il valore dei beni oggetto del sequestro e il profitto o il prezzo dell’ipotizzato reato tributario (Cassazione, sentenza 19034/2013).
Ne deriva che, in tema di sequestro, non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, essendo sufficiente che sussista il “fumus delicti commissi”, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata fattispecie di reato del fatto contestato come ipotesi d’accusa (cfr Cassazione, sentenze 2672/1999 e 5656/2014).

Nel caso in esame, pertanto, i giudici, ritenendo ipotizzabile la falsità delle fatture e dunque la sussistenza in concreto dei reati previsti dagli articoli 2 e 8 del Dlgs 74/2000, indipendentemente dall’accertamento dell’elemento psicologico, considerato che la verifica dei gravi indizi di colpevolezza è estranea all’adozione della misura cautelare reale, hanno ritenuto legittimo il sequestro preventivo disposto sui beni del commercialista della società cliente, vero evasore d’imposta.


Fonte: Agenzia Entrate

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