È legittima la rettifica Iva per emissione di fatture inesistenti basata sulle dichiarazioni dei fornitori. Una volta che tale prova sia stata adeguatamente acquisita, spetta al contribuente dimostrare l’inesistenza dell'operazione contestata. Respinto l’appello in base al quale le presunzioni dell'Amministrazione non avevano carattere di gravità, precisione e concordanza, in quanto fondate su informazioni di terzi, non documentate.
È quanto afferma la Corte di cassazione, nella sentenza 15331/2014.

Evoluzione processuale della vicenda
A seguito di una verifica fiscale effettuata dalla Guardia di finanza presso una ditta individuale che aveva emesso fatture ritenute “per operazioni inesistenti”, l’Agenzia delle Entrate emetteva a carico della contribuente un avviso di rettifica parziale per Iva.
La contribuente impugnava l'avviso contestando: a) difetto di motivazione; b) la legittimità di un accertamento meramente presuntivo, basato su dichiarazioni di terzi a essa sconosciute.
La Commissione tributaria provinciale adita respingeva il ricorso osservando, in particolare, che l'ufficio aveva provato la “falsità della fattura”, utilizzando come strumento probatorio anche “le dichiarazioni di terzi”.

Contro la sentenza della Ctp, la contribuente ricorreva in Commissione tributaria regionale.
I giudici di secondo grado accoglievano l'appello proposto, ritenendo che le presunzioni addotte dall'Amministrazione non rivestissero i necessari caratteri di gravità, precisione e concordanza, in quanto fondate unicamente su dichiarazioni di terzi, non assunte in contraddittorio con la parte e di cui non era stata fornita documentazione al giudice d'appello.

L’Amministrazione finanziaria proponeva allora ricorso in Cassazione, formulando il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se, in caso di impugnazione di un avviso di rettifica, emesso ai sensi dell'art. 54, co. 5, del D.P.R. nr. 633/1972 e contenente la contestazione della falsità di un'operazione passiva, l'Amministrazione finanziaria sia tenuta, ai sensi dell'art. 2697 c.c., a dimostrare l'esistenza degli elementi di fatto, costituenti indizi della detta falsità e non anche, direttamente, l'inesistenza dell’operazione”.

Pronuncia della Cassazione
A giudizio della Suprema corte, nel caso di specie, “non trova applicazione il divieto di prova testimoniale ex art. 7, comma 4, d.lgs. n. 546/92, ed è pertanto pacifica l'ammissibilità delle dichiarazioni o informazioni di terzi acquisite dall'ufficio - purché inserite nel processo verbale di constatazione, o trascritte essenzialmente nella relativa motivazione, ovvero allegate all'avviso di rettifica notificato - nel giudizio tributario, ove trovano ingresso come elementi indiziari, liberamente valutabili dal giudice del merito (Cass., sent. n. 3104/14, n. 21812/12, n. 20032/11, n. 11785/11, n. 21317/10, n, 4306/10, n, 450/08), potendo la loro efficacia probatoria essere contestata anche attraverso controdichiarazioni di analoga natura, parimenti soggette al prudente apprezzamento delle commissioni tributarie (cfr. Corte Cost,, sent. n. 18 del 2000)”.

Quanto, poi, all’inversione dell’onere della prova in capo alla contribuente a fronte della contestazione del Fisco di operazioni inesistenti, deve tenersi conto del superamento di quest’originario orientamento giurisprudenziale, con l’affermazione della tesi secondo la quale “l’inversione dell'onere della prova è subordinata ad una complessiva valutazione di idoneità degli elementi presuntivi offerti dall'ufficio sulla pretesa inesistenza, oggettiva o soggettiva, delle operazioni contestate (Cass., sent. n. 19332 del 2011)”.

La Corte, infatti, tenendo conto della giurisprudenza eurocomunitaria per la quale il diritto del contribuente alla detrazione Iva non è suscettibile di limitazioni, ha ritenuto che spetti all'Amministrazione finanziaria l'onere di provare (anche avvalendosi di presunzioni semplici) che si tratta di operazioni oggettivamente inesistenti (dimostrando che le operazioni non sono state effettuate) o soggettivamente inesistenti (dimostrando che il contribuente sapeva che l’operazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore). Mentre per le ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, di tipo triangolare, detto onere può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale, elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede”, in quelle di “frode carosello” occorre dimostrare gli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la consapevolezza di essi da parte del contribuente.

Considerando imprescindibile la regolarità delle scritture contabili, la Suprema corte ha affermato che l’onere di provare che l’operazione commerciale non sia stata posta in essere grava sull’Amministrazione, la quale può farlo anche attraverso elementi presuntivi da sottoporre al vaglio del giudice tributario di merito, il quale, a sua volta, valutati tali elementi singolarmente e complessivamente, solo ove li ritenga dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, può consentire al contribuente che ne diviene così onerato ex articolo 2697, comma 2, codice civile, di provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

In conclusione, la Corte di cassazione accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, rinviando la causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale, la quale si uniformerà al seguente principio di diritto:
“In tema di IVA, spetta all'amministrazione fornire la prova della pretesa inesistenza di un'operazione commerciale. Tale prova può essere fornita anche attraverso elementi presuntivi, tra i quali vanno annoverate le dichiarazioni dei terzi, purché inserite o trascritte nel processo verbale di constatazione, ovvero allegate all'avviso di rettifica notificato. Una volta che tale prova sia stata adeguatamente fornita, spetta al contribuente fornire la prova contraria della esistenza dell'operazione contestata, la quale non può consistere esclusivamente nella regolarità formale delle scritture o nelle evidenze meramente contabili dei pagamenti”.


Fonte: Agenzia Entrate

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