Con contratto di cessione d’azienda stipulato il 17 giugno 2004, la società A acquistava dalla società B l’azienda, costituita da un ristorante, per un prezzo dichiarato in atto pari a complessivi 300mila euro, di cui 190mila versati come corrispettivo per l’avviamento commerciale.

L’Agenzia delle Entrate, con un avviso di rettifica, rideterminava tale corrispettivo in 859.534 euro, accertava il valore dell’azienda ceduta in 969.534 euro e procedeva alla liquidazione della maggiore imposta di registro dovuta pari a 20.086 euro, oltre a interessi e sanzioni.
La società acquirente impugnava l’atto in Commissione tributaria provinciale, la quale rigettava il ricorso confermando la legittimità dell’operato dell’ufficio.

La contribuente, allora, presentava appello e la Commissione tributaria regionale, in accoglimento del ricorso, rideterminava il valore dell’avviamento (dell’azienda ceduta) in 100.376 euro, ritenendo pertanto congruo il corrispettivo dichiarato in atto (190mila euro). In particolare, ha ritenuto applicabile al caso concreto l’articolo 2, comma 4, del Dpr 460/1996, il quale espressamente prevede che “Per le aziende e per i diritti reali su di esse il valore di avviamento è determinato sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d'imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3. La percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d'impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo. Il moltiplicatore è ridotto a 2 nel caso in cui emergano elementi validamente documentati e, comunque, nel caso in cui ricorra almeno una delle seguenti situazioni: a) l'attività sia stata iniziata entro i tre periodi d'imposta precedenti a quello in cui è intervenuto il trasferimento; b) l'attività non sia stata esercitata, nell'ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto il trasferimento, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento della attività stessa; c) la durata residua del contratto di locazione dei locali, nei quali è svolta l'attività, sia inferiore a dodici mesi”.

Contro la pronuncia del secondo grado di merito, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi:
violazione e falsa applicazione dell’articolo 51 del Dpr 131/1986 e dell’articolo 2 del Dpr 460/1996, in quanto il giudice d’appello avrebbe fatto cattiva applicazione del disposto di quest’ultima norma avendo utilizzato, quale parametro di calcolo, la “media degli utili operativi” della società cedente nell’ultimo triennio, in luogo della “media dei ricavi” dichiarati e/o accertati nel medesimo periodo di riferimento, così come effettivamente previsto dall’articolo in esame
vizio di insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi del giudizio, in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 5), cpc, in merito alla valutazione di inattendibilità, da parte della Ctr, del listino al quale l’Amministrazione aveva fatto riferimento per la stima della redditività, nella misura del 90%, ai fini del calcolo del valore dell’avviamento.
Dall’altro lato, la società ha resistito con controricorso, illustrando le proprie difese con un’ulteriore memoria.

La decisione
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 7324/2014, ha proceduto a un esame separato dei motivi di impugnazione suindicati.

Il primo veniva ritenuto fondato in quanto, in linea generale, il calcolo effettuato dalla Ctr avrebbe, di fatto, stravolto il criterio previsto dalla norma (articolo 2, comma 4, Dpr 460/1996).
In particolare, secondo il giudice di legittimità, non avrebbe alcun senso – se non si adottasse, quale criterio-base di riferimento, la media dei ricavi dell’ultimo triennio – l’applicazione, sulla stessa, della percentuale di redditività dell’attività d’impresa. E infatti, la Ctr, limitandosi a moltiplicare per tre il valore della media degli utili operativi dell’ultimo triennio, giungeva a un risultato palesemente ingiustificato, in quanto inferiore di quasi la metà al corrispettivo dichiarato dell’avviamento nell’atto di compravendita.

Inoltre, la Cassazione ha affermato che la società non poteva dedurre un’ulteriore eccezione di illegittimità dell’avviso di rettifica e liquidazione impugnato, in ragione della presenza di studi di settore quale condizione ostativa all’applicazione del criterio di calcolo previsto dalla disposizione in argomento (criterio peraltro richiamato dalla stessa società in sede di prima impugnazione dell’avviso, ove il suo calcolo fosse risultato più favorevole).

Pertanto, dice la Corte suprema, in merito a questo motivo di impugnazione, il giudice di merito si dovrà attenere al seguente principio di diritto “Ai fini del calcolo del valore di avviamento commerciale quale parte del corrispettivo di cessione d'azienda, per la determinazione della base imponibile dell'imposta di registro, ex artt. 51 del DPR 131/86 e 2 co. 4 del DPR 460/96, deve applicarsi la percentuale di redditività ritenuta congrua dal giudice alla media dei ricavi (e non degli utili operativi) accertati o, in mancanza dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento applicando di seguito il moltiplicatore previsto dalla norma”.

Anche il secondo motivo viene accolto, in quanto la Ctr è incorsa nel vizio di insufficiente motivazione, perché non ha fornito puntuale delucidazione circa la ritenuta inattendibilità dei valori esposti nel listino di Milano e provincia – ricordando, tra l’altro, che esso, pur non possedendo i crismi di una certificazione legale, costituisce il risultato di rilevazioni di mercato compiute dalle associazioni di agenzie che gestiscono il mercato dei complessi immobiliari e aziendali ubicati nel territorio.

Poi, a giudizio della Cassazione, appare insufficiente il generico richiamo a una crisi di redditività delle attività commerciali ubicate nella zona, quella dei Navigli, e in particolare a quella incombente sull’azienda venduta, con riferimento alla necessità di aver effettuato operazioni di riconversione produttiva aggravate dalla perdurante situazione di lavori di ristrutturazione, non ultimati, nella medesima zona dei Navigli; condizione, come afferma la Ctr, nota “… a chi conosce Milano”.
In relazione a tale ultima affermazione, per la Corte “Si tratta, evidentemente, della dilatazione del ricorso al fatto notorio oltre i limiti entro i quali esso è idoneo a derogare al principio dispositivo delle prove, quale fatto acquisito alle conoscenze della collettività secondo la comune esperienza di questa (si vedano, in proposito, oltre a Cass. civ. sez. trib. 28 febbraio 2008, n. 5232, in senso conforme, più di recente, Cass. civ. sez. II 31 maggio 2010, n. 13234; Cass. civ. sez. trib. 5 ottobre 2012, n. 16959)”.

In conclusione, la valutazione dei cespiti immobiliari e aziendali insistenti sulla zona interessata (dei Navigli) richiede il preventivo accertamento dei rispettivi valori di stima, così come determinati dai comuni valori di mercato inseriti negli appositi listini immobiliari.


Fonte: Agenzia Entrate

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