Mancando il presupposto della coesistenza dei due debiti, come richiesto dall’articolo 1242 del codice civile, non è consentito al contribuente compensare un credito di imposta già esistente con un debito presunto e ancora non venuto a esistenza. Questo comportamento è sanzionato come omesso versamento di imposta (ex articolo 13, Dlgs 471/1997).
Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 4163 del 21 febbraio 2014.

I fatti
A seguito di un processo verbale di constatazione nei confronti di una società a responsabilità limitata per le operazioni effettuate negli anni di imposta dal 2003 a 2005, è emerso che, il 30 novembre 2005, la stessa società aveva compensato, con modello F24, la somma di 365mila euro con un debito Irap.
La contribuente ha impugnato l’avviso con il quale l’Agenzia delle Entrate ha provveduto al parziale recupero del credito d’imposta (articolo 8, legge 388/2000) indebitamente utilizzato – nell’anno 2005 – mediante compensazione con un acconto Irap relativo allo stesso anno, e con il quale sono state irrogate anche le relative sanzioni.

La società, al fine di non rinunciare ai benefici fiscali ritenuti spettanti (pari a 365mila euro per gli investimenti effettuati) sino al 31 dicembre 2005 (dall’1 gennaio 2006, entrando in vigore la disciplina dell’articolo 62, legge 289/2002, si rendevano operativi limiti quantitativi e temporali relativi al credito di imposta previsto dall’articolo 8 citato), aveva irregolarmente effettuato un versamento d’acconto Irap, utilizzando il credito di imposta per incremento occupazionale pur non essendovi a monte alcun debito né per Irap, né per altra imposta.

In primo grado, i giudici hanno accolto integralmente il ricorso della società, ritenendo esistente e spettante il credito di imposta, secondo quanto disposto dall’articolo 8, legge 388/2000, e dall’articolo 62, legge 289/2002.

Di diverso avviso la Commissione tributaria regionale della Puglia, che ha parzialmente accolto l’appello dell’ufficio (per il capo della sentenza relativo all’illegittimità dell’utilizzo del credito d’imposta, confermando invece la sentenza impugnata in ordine alla non debenza delle sanzioni irrogate).
In particolare, i giudici di appello hanno precisato che intanto era ammissibile la compensazione di un credito solo se sussisteva, in concreto, un debito risultante dalla dichiarazione relativa al periodo d’imposta precedente. Inoltre, hanno evidenziato che la sanzione, prevista dall’articolo 13, Dlgs 471/1997, riguarda il solo omesso versamento d’imposta e, quindi, non poteva essere applicata, non essendovi, nella fattispecie esaminata, alcun “debito tributario” e, di conseguenza, alcun omesso versamento.

Contribuente e ufficio hanno proposto ricorso per cassazione.
La società ha lamentato violazione e falsa applicazione di legge (combinato disposto degli articoli 8, comma 5, legge 388/2000, e 17, comma 2, legge 241/1997), poiché nelle norme non è prevista alcuna limitazione per il contribuente all’utilizzo della compensazione con riferimento sia ai debiti già in corso sia ai debiti a venire.
Di contro, l’Agenzia ha lamentato violazione e falsa applicazione di legge (articoli 2, Dlgs 546/1992, e 13, Dlgs 471/1997), in quanto il comportamento posto dalla società (indebita compensazione del credito d’imposta prima del tempo di pagamento delle imposte dovute, finalizzato a ottenere indebiti vantaggi fiscali) non consentiva di rinviare l’applicazione della sanzione nei suoi confronti al momento in cui la stessa aveva concretizzato l’inadempimento fiscale.

La Cassazione, riuniti i ricorsi, ha affermato che “in tema di agevolazioni tributarie, ove i crediti di imposta per incremento occupazionale, … vengano utilizzati in compensazione di imposte dovute, in assenza dei relativi presupposti, si concretizza un’ipotesi di omesso versamento di imposta, suscettibile di sanzione, ai sensi del Dlgs 18 dicembre 1997, n. 471, articolo 13…”.

Osservazioni
Non si può “pagare” un acconto d’imposta con un credito quando al momento dell’adempimento non sussiste alcun obbligo, solo nel timore di perdere il beneficio fiscale a scadenza.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sia sulla possibilità, per il contribuente, di compensare un credito di imposta con un futuro ed eventuale acconto, sia sulle conseguenze di tale comportamento in termini di sanzioni.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, il credito d’imposta per incremento occupazionale era stato compensato con una somma versata a titolo di acconto per un debito non ancora venuto a esistenza, sulla base di un metodo cosiddetto “presuntivo”, sulla base di quanto la società presumeva di dovere versare per l’anno in corso (articoli 1 e 2, legge 97/1977).

La Corte, alla luce dell’articolo 1, legge 97/1977, ha precisato che l’obbligo di versare un acconto d’imposta sorge solo se è stata evidenziata un’imposta nella dichiarazione precedente (cosiddetto “metodo storico”). Di conseguenza, tale obbligo non può sussistere solo perché il contribuente “presume” di dovere corrispondere l’imposta per l’anno in corso.
Diversamente, in contrasto con i principi generali e in assenza di un’espressa disposizione in proposito, un obbligo giuridico avrebbe fonte in una valutazione meramente soggettiva del contribuente. Ma non senza conseguenze.
Il comportamento posto dalla società è parso (all’Agenzia e anche ai giudici di piazza Cavour) finalizzato a ottenere indebiti vantaggi fiscali.

Dopo aver riscontrato la mancanza dei presupposti legittimanti la compensazione, la Corte ha ritenuto applicabile la sanzione per omesso versamento (cfr Cassazione, 8681/2011), specificando che “il superamento del limite massimo dei crediti d’imposta compensabili equivale al mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste, … sanzionato dal Dlgs n. 471 del 1997, articolo 13, così come accade ogniqualvolta sia utilizzata la compensazione in assenza dei relativi presupposti” (cfr Cassazione, 18369/2012).

In conclusione, è legittimo, non solo il recupero del credito di imposta (non spettante perché utilizzato in assenza dei presupposti di legge), ma è altresì legittima la sanzione comminata dall’ufficio, corrispondente al 30% della somma che la società avrebbe dovuto versare a titolo di acconto. E senza necessità di attendere che il contribuente ne avesse omesso l’adempimento.


Fonte: Agenzia Entrate

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