Il contribuente che vuole opporsi all’accertamento presuntivo, basato sulla constatazione di maggiori compensi che la parte dichiara di non aver mai percepito nell’anno accertato, ha il preciso onere di dimostrare e documentare che tali compensi sono stati riscossi in un periodo d’imposta differente rispetto a quello d’imputazione da parte degli uffici finanziari o provare l’esistenza di impedimenti oggettivi che non hanno consentito l’incasso tempestivo dei compensi.
Questo il principio fissato dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 23994 del 23 ottobre 2013.


Il fatto
La vicenda riguarda un lavoratore autonomo a cui era stato notificato un avviso di accertamento ai fini Irpef, Iva e Irap, avente a oggetto l’accertamento del maggior reddito di lavoro autonomo relativo al periodo d’imposta 1998, determinato con l’applicazione dei parametri di cui all’articolo 3, comma 181, della legge 549/1995.

Il ricorso proposto dal professionista era stato accolto, in sede di prime cure, e confermato dai giudici di secondo grado, secondo cui il contribuente aveva adeguatamente contestato l’accertamento emesso nei propri confronti.
In particolare, a parere dei giudici della Ctr, la parte aveva legittimamente giustificato la mancata percezione dei compensi che, invece, l’ufficio finanziario aveva recuperato a tassazione, a tal fine producendo un atto di diffida e di messa in mora nei confronti della Ausl, avverso cui il libero professionista vantava il credito a suo dire rimasto impagato.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate deducendo, tra l’altro, il vizio motivazionale della sentenza di secondo grado, non avendo il giudice tributario adeguatamente tenuto conto delle ragioni in fatto che lo hanno condotto a ritenere non sufficientemente motivato l’avviso di accertamento e infondata la pretesa tributaria.

Sul punto, esaminato il ricorso, la suprema Corte di cassazione ha deciso per la fondatezza dei motivi addotti dall’Amministrazione finanziaria, cassando con rinvio la sentenza impugnata.

La decisione
L’accertamento notificato dall’ufficio finanziario nei confronti del lavoratore autonomo, oggetto della controversia in commento, è stato effettuato utilizzando i parametri previsti dai commi da 181 a 187 dell’articolo 3 della legge 549/1995.
I parametri, al pari degli studi di settore, costituiscono strumenti utilizzati dall’Amministrazione finanziaria ai fini della determinazione dei compensi e del volume d’affari fondatamente attribuibili al contribuente in base alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta.

In fase endoprocedimentale, il contribuente, invitato in contraddittorio a fornire spiegazioni e prove in merito ai maggiori ricavi accertati sulla base dei parametri, aveva addotto di non aver mai incassato i compensi accertati dall’ufficio.
D’altro canto l’ufficio, non avendo ritenuto sufficientemente adempiuto l’onere di dimostrare l’omessa percezione dei maggiori compensi accertati, procedeva con l’emissione del relativo atto impositivo.

A parere della Corte di cassazione, hanno errato i giudici di secondo grado ritenendo, da un lato, che l’avviso di accertamento fosse carente nella motivazione e, dall’altro, che il contribuente avesse adempiuto all’onere della prova a proprio carico.
A fondamento delle proprie ragioni, la parte aveva prodotto “copia di un atto di diffida e di messa in mora”, mediante il quale aveva intimato a una Ausl il pagamento di compensi relativi all’anno 2008, gli stessi ripresi a tassazione dall’ufficio finanziario.

Secondo i giudici di legittimità, il Collegio di secondo grado avrebbe dovuto meglio chiarire il motivo per cui le giustificazioni offerte dal ricorrente, in ordine alla mancata percezione del credito derivante dai compensi per prestazioni professionali, avrebbero potuto assurgere a idonea prova contraria avverso la pretesa erariale.
La questione, pertanto, ruota attorno a tale credito, che l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto – in via presuntiva, essendo mancante idonea prova contraria – regolarmente riscosso, contrariamente a quanto affermato e documentato dal contribuente.

I giudici di legittimità hanno confermato la posizione dell’ufficio finanziario precisando che, davanti a una pretesa erariale fondata su una prova per presunzione, “il contribuente, per resistere, deve contrastare tale prova e quindi, a questo fine, ha l’onere di dimostrare un fatto, positivo, vale a dire la percezione del reddito in un periodo diverso da quello ritenuto, sulla base di un preciso riferimento probatorio, dalla Amministrazione, ovvero la esistenza di impedimenti alla percezione o comunque di fattori idonei ad impedire l’incasso tempestivo dei compensi (Cass.Trib. 1508/1990)”.

A latere di tale principio, la Cassazione è tornata a esprimersi sull’importanza del ruolo del contraddittorio nell’ambito dell’accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri (o degli studi di settore), “quale strumento principale di verificazione o falsificazione della corrispondenza tra realtà e sua rappresentazione”.
A parere della suprema Corte, è in quella sede che sono offerti al contribuente gli strumenti per difendersi dalla pretesa fiscale deducendo, ad esempio, l’erroneità dello specifico parametro, rilevando l’eventuale errore dell’ufficio impositore nell’applicare i parametri alla sua realtà o documentando la sussistenza di elementi anomali e straordinari che giustifichino lo scostamento dal reddito accertato.

In sostanza, i parametri previsti dalla legge 549/1995 rilevano valori che “quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’ufficio dell’accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973 e, soltanto ove siano stati contestati, in sede di contraddittorio con il contribuente, sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare da soli l’accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa”.


Fonte: Agenzia Entrate

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