Ai fini dell’accesso alla definizione delle liti pendenti, deve essere confermato, in linea generale, l’orientamento secondo cui è tale la controversia instaurata con ricorso poi dichiarato inammissibile. Tuttavia, detto principio deve essere temperato nel caso di manifesta arbitrarietà della lite, con la conseguenza di confermare il diniego del condono in siffatta ipotesi.
Con la sentenza n. 22502 del 2 ottobre, la Suprema corte, pienamente consapevole del consolidato orientamento della giurisprudenza in materia di definizione di liti fiscali pendenti, ha preso spunto dalla fattispecie concreta posta al suo vaglio per definirne i rapporti con la declaratoria di arbitrarietà della lite originariamente instaurata.

La vicenda processuale di merito
Il ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Ctr Piemonte con la quale, rigettando l’appello principale presentato dall’ufficio e quello incidentale del contribuente, veniva confermata l’illegittimità dei provvedimenti con i quali l’Agenzia aveva opposto diniego alla definizione delle liti fiscali pendenti, ex articolo 16 della legge 289/2002, in quanto, a giudizio dell’ufficio, il ricorso contro due avvisi di accertamento, notificati il 12 dicembre 1997, era stato presentato solo in data 24 dicembre 2002.
In particolare, il giudice di gravame aveva ritenuto che la nozione di “lite pendente” si basa su un principio meramente formale, per cui la proposizione di un atto qualificabile come ricorso introduttivo è, da solo, condizione sufficiente a instaurare una lite; il tutto, a prescindere alla circostanza che il medesimo ricorso sia da considerare valido e rituale. Per cui il contribuente ha, di conseguenza, il diritto di servirsi del condono fino al momento in cui il ricorso non venga dichiarato inammissibile con sentenza passata in giudicato.
Nel caso di specie, il contribuente resisteva con controricorso e proponeva anche ricorso incidentale.

La normativa di riferimento
L’articolo 16 della legge 289/2002 (Finanziaria 2003) aveva previsto la possibilità di condonare le liti fiscali pendenti in cui fosse parte l’Amministrazione finanziaria, per le quali, alla data di entrata in vigore della legge stessa, fossero stati proposti tempestivi ricorsi e non fossero intervenute sentenze passate in giudicato (comma terzo, lettera a). Il medesimo articolo, più volte novellato con provvedimenti legislativi successivi, prevedeva, altresì, termini, condizioni e modalità operative per il valido accesso alla sanatoria in argomento.

La decisione
La Corte di cassazione riuniva i due ricorsi ai sensi dell’articolo 335 cpc e passava al vaglio dell’unico motivo di ricorso principale, con il quale le Amministrazioni ricorrenti denunziavano la violazione degli articoli 15 e 16 della legge 289/2002 e dei principi generali in tema di finalità del condono tributario e di inammissibilità e irricevibilità degli atti giudiziari.
I ricorrenti, in definitiva, formulavano un quesito di diritto inerente l’articolo 16, comma terzo, lettera a), della legge citata, per poter definire i caratteri della “lite pendente” avente a oggetto avvisi di accertamento, e ogni altro atto di imposizione, per i quali si possa ragionevolmente presumere che sussista un margine di indeterminatezza e che, quindi, sia ancora pienamente cogente l’interesse delle parti in causa alla loro definizione. Con esclusione, pertanto, di provvedimenti impositivi oramai cristallizzati nel tempo e, di conseguenza, da considerarsi non più potenzialmente idonei a far scaturire liti.

La Cassazione riteneva pienamente fondato il ricorso nei sensi che qui di seguito si espongono.
In via preliminare, il giudice di legittimità prende spunto, per la sua analisi, dal consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la pendenza di una lite fiscale deve intendersi in chiave formale, nel senso che eventuali vizi di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio non possono essere considerati di ostacolo alla sua definizione.
Infatti, un ricorso che abbia a oggetto un provvedimento impositivo deve sufficientemente contenere i crismi di atto idoneo ad aprirne il sindacato (pur in assenza di un prudenziale vaglio di merito circa la ritualità dell’iniziativa del contribuente) e che lo stesso ricorso non sia stato dichiarato inammissibile, dal giudice tributario, con pronunzia passata in giudicato.

La Cassazione, però, pur condividendo in linea generale il principio sopra esposto, ne enuclea un temperamento, al fine di non permettere l’instaurazione di fattispecie chiaramente immotivate e, quindi, non meritevoli di tutela giurisdizionale.
La Suprema corte, infatti, con diretto riferimento a un isolato precedente (cfr Cassazione, n. 15158/2006), fa suo l’assioma in base al quale un’impugnazione tardiva, a fini esclusivamente dilatori e artificiosi e che persegua l’esclusivo scopo di pagare una minore imposta rispetto a quanto accertato, non può conseguire il risultato sperato. Questo perché il versamento di un importo inferiore è consentito quando abbia, come sinallagma, la cancellazione di un contenzioso e non quando la lite non risulti più sussistente a seguito di definitività dell’atto presupposto – in assenza di sua tempestiva impugnazione – e in un momento antecedente l’intervento dell’invocata normativa sul condono.

In buona sostanza, la lite deve essere concreta, reale e deve possedere un carattere di “incertezza” con riguardo alla sua definibilità, dovendo escludersi la possibilità di rimettere in discussione, sul piano fattuale e oltre ogni limite temporale, atti resisi definitivi e quindi non più “litigiosi”.
Tale ultimo corollario permette anche di non infrangere la ratio della normativa in tema di condono, la quale, almeno nelle intenzioni del legislatore, aveva lo scopo di deflazionare il contenzioso pendente e non, paradossalmente, di crearne di surrettizio e strumentale.

Passando all’esame della tematica relativa alla definizione delle liti fiscali pendenti, l’esistenza di forme di abuso di strumenti processuali si rinviene, in modo lampante e inequivoco, nell’elemento meramente artificioso e fittizio del contenzioso instaurato dal contribuente, nonostante la palese tardività nella sua proposizione e al solo precipuo scopo di poter illegittimamente fruire del beneficio sotteso alla normativa di riferimento.
Nel caso di specie, l’evidente abuso del processo veniva riscontrato, in maniera sintomatica, dalla circostanza in base alla quale il contribuente proponeva ricorso contro gli originari avvisi di accertamento ben oltre il termine previsto dalla legge (dopo cinque anni dalla loro notifica) e in assenza di valide argomentazioni in ordine al perdurante interesse all’ammissibilità dell’impugnazione tardiva.

Il rigetto di qualsiasi forma di abuso degli strumenti di tutela giurisdizionale, in particolare, e del processo, in generale, trova il suo fondamento con riferimento sia ai canoni di correttezza e buona fede - come anche esplicitati normativamente nell’articolo 10 della legge 212/2000 (Statuto del contribuente) in tema di rapporti fisco-contribuente - sia nei principi di lealtà processuale (articolo 88 cpc) e di giusto processo (articolo 111 della Costituzione).


Fonte: Agenzia Entrate

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