È il patrimonio del legale rappresentante, gravemente indiziato dell’illecito penale tributario, a poter essere aggredito con un provvedimento di sequestro per equivalente, in vista della futura confisca del profitto del reato.
Questo è quanto ha deciso la Corte di cassazione, con la sentenza n. 41694 del 9 ottobre, chiamata a giudicare su impulso del ricorso presentato dal legale rappresentate di una società a responsabilità limitata, dedita all’attività di recupero e intermediazione commerciale di rifiuti, a cui era stata sequestrata per equivalente un’ingente somma di denaro dal tribunale del riesame, territorialmente competente.
In particolare, era stata disconosciuta al professionista la deduzione, ai fini delle imposte dirette, per tre annualità, di elementi passivi fittizi perché si era avvalso, a tal proposito, di documenti contabili attestanti operazioni inesistenti.

Nel ricorso per cassazione, venne addotto dal contribuente il difetto di motivazione della decisione dei giudici di merito che, secondo la difesa, non avrebbero correttamente disposto il sequestro preventivo, in quanto il reato doveva riferirsi alla Srl, persona giuridica, e non al suo rappresentante legale, colpendo, in definitiva, i beni della persona fisica invece di quelli della società. In tal caso, mancherebbe, secondo il ricorrente, un’apposita norma che disciplini che a essere colpito da sequestro per equivalente sia il fruitore dell’evasione fiscale.

Inoltre, il contribuente aveva evidenziato come la sentenza del sequestro preventivo fosse carente del cosiddetto fumus commissi delicti, ovverossia che le fatture utilizzate, per l’abbattimento fraudolento dell’imposta, non fossero mai state emesse da alcun soggetto commerciale e che i giudici di merito non avessero dato risposta circa gli effetti che avrebbe apportato, al caso concreto, la normativa di cui all’articolo 8 del Dl 16/2012, relativamente alla possibilità di dedurre i costi effettivamente sostenuti, seppure documentati con fatture soggettivamente inesistenti.

Vi è di più: nel ricorso di legittimità, fu inoltre evidenziato come in circostanza del giudizio di riesame gli inquirenti abbiano vagliato soltanto il 20% dei documenti rinvenuti nella società. Questa scelta avrebbe inciso sul numero delle operazioni di cui si poteva ritenere dimostrata la fittizietà delle scritture contabili e che l’onere della prova incombesse solo sull’accusa.

In ultimo, per quanto concerne il quantum dell’evasione fiscale, la difesa del contribuente eccepì nel ricorso il dubbio sulla metodologia di calcolo del tribunale del riesame dell’ammontare dell’imposta evasa, avendo questo basato il suo computo sul prospetto annotato dalla Guardia di finanza, non allegato al decreto di sequestro preventivo.

La Corte di cassazione, con la sentenza in esame, ha voluto preliminarmente chiarire che il ricorso di legittimità contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo viene ammesso solo per le violazione di legge. Sia per gli errores in iudicando o in procedendo sia per quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo, posto a sostegno del provvedimento, del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr Cassazione 25932/2008 e 5876/2004).

A sostegno della fondatezza della motivazione della sentenza del riesame, il Collegio chiarisce come non sia ipotizzabile la plena cognitio del tribunale, il quale è tenuto solamente a verificare la correttezza degli obiettivi che sono propri del processo, verificando, in tal senso, la presenza del fumus commissi delicti e del periculum libertatis, senza avere alcun potere conoscitivo sui fondamenti dell’accusa, potere conferito al giudice del procedimento principale.

Per quanto concerne la questione sul presunto vizio della determinazione della somma da sequestrare, la Corte afferma che le valutazioni che hanno portato al computo del quantum non possono essere valutate in sede di giudizio di legittimità, ma che, comunque, il tribunale ha correttamente operato nel calcolo dell’ammontare della pena preventiva.

Come accennato, nel ricorso per cassazione venne addotto dal contribuente la normativa introdotta dal Dl 16/2012, che ha inteso apportare nel nostro ordinamento giuridico ulteriori disposizioni in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento, il cui articolo 8 ha apportato modifiche alla legge 537/1993 (articolo 14, comma 4-bis).

A questo proposito, la Corte di cassazione chiarisce come il legislatore abbia voluto ridurre l’ambito dei componenti negativi del reddito collegati a illeciti penali e non ammessi in deduzione nella determinazione del reddito tassabile, limitandolo ai soli costi e spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, in relazione al quale (delitto) il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale, ovvero sentenza di non luogo a procedere, ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice, fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale.

Dunque, sono indeducibili i costi sostenuti al fine di realizzare l’attività criminosa (frode fiscale), perché sono da considerarsi essi stessi strumento per la realizzazione dell’evasione dell’imposta.
In particolare, nel caso concreto, la Corte afferma che, l’introduzione del Dl 16/2012 “non ha alcuna incidenza sulle fattispecie in esame. Infatti l’invocata disposizione si è limitata a precisare una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, stabilendo che non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione, norma che non ha alcun riflesso sulle disposizioni penali relative all’incriminazione di condotte fraudolente quali quelle contestate” al contribuente.

Per quanto concerne la pretestuosa censura addotta dalla difesa del contribuente, che sosteneva l’impossibilità che il sequestro potesse avvenire sui beni della persona fisica, autrice del reato, invece di quelli della società, i giudici di piazza Cavour ricordano che la giurisprudenza della Corte ha in più riprese affermato che, se è vero come è vero che la confisca per equivalente, prevista dall’articolo 19, comma 2 del Dlgs 231/2001, nei confronti delle persone giuridiche, non può essere disposta sui beni di qualsiasi natura appartenenti alla persona giuridica, ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, sulla base dell’articolo 1, comma 143, della legge 244/2007, atteso che gli articoli 24 e seguenti dello stesso decreto non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l’adozione del provvedimento, salva sempre l’ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio, utilizzato dal reo per commettere gli illeciti. È altrettanto vero che, in tal caso, il reato non risulterebbe commesso nell’interesse o a vantaggio di una persona giuridica, ma a diretto vantaggio del reo, attraverso lo schermo dell’ente (cfr Cassazione 25774/2012 e 1256/2012).
Per cui non sussiste alcun impedimento normativo al vincolo, finalizzato all’escussione, del patrimonio del legale rappresentante, gravemente indiziato di essere l’autore del reato (cfr Cassazione 7138/2011).


Fonte: Agenzia Entrate

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