La Corte di cassazione ha ribadito il principio secondo cui la “contabilità in nero” – costituita da appunti – per il suo valore probatorio, legittima di per sé, a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui agli articoli 39, Dpr 600/1973, e 54, Dpr 633/1972, spostando sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo.
Questo il principio di diritto contenuto nella sentenza n. 20492 del 6 settembre.

I fatti
La sentenza origina da un accertamento, a carico di un dentista, per Irpef e Irap relative all’anno 1999.
Sia la Ctp sia la Ctr respingevano le doglianze della parte contribuente.
In particolare, la Ctr riteneva, da un lato, la congruità motivazionale dell’avviso, essendo stato notificato al contribuente il pvc della Guardia di finanza, sul quale si fondava l’atto impositivo e, dall’altro, che la documentazione extracontabile, rinvenuta nell’abitazione del professionista, fosse riconducibile (ex articolo 2729 cc) alla sua attività professionale, senza che fosse stata offerta alcuna prova contraria.

I motivi di ricorso
Gli eredi del contribuente insorgevano, affidando il ricorso a cinque motivi di diritto.
Con il primo sostenevano che il mero rinvio al pvc, contenuto nell’avviso, rendesse l’atto impositivo nullo.
Con gli altri motivi, lamentavano, in sintesi, la violazione di alcune norme del Dpr 600/1973, nonché degli articoli 2727 e 2729 del codice civile, per avere la Ctr avallato la tesi dell’utilizzabilità della contabilità “parallela”, a loro dire, non chiaramente imputabile al soggetto accertato. Sottolineavano, inoltre, che tale contabilità non possedesse requisiti tali da fondare l’accertamento per presunzioni né che fosse stata doverosamente esaminata.

Le motivazioni della pronuncia
La Corte suprema, innanzitutto, dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, alla luce del consolidato orientamento, secondo cui, per contestare la legittimità e la congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, il contribuente deve, a pena di inammissibilità, riportare testualmente la motivazione dell’atto che si assume erroneamente valutata dal giudice di merito, affinché la Cassazione possa esprimere il suo giudizio esclusivamente in base al ricorso medesimo (principio di “autosufficienza”).
Quanto agli altri motivi, ribadisce il principio secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, così come dell’Iva, la “contabilità in nero” o “parallela”, costituita da appunti personali (brogliacci, block notes, agende, eccetera) e informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, prescritti dall’articolo 39, Dpr 600/1973 (e, per l’Iva, dall’articolo 54, Dpr 633/1972), dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili, disciplinate dagli articoli 2709 e seguenti del codice civile, tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta. Ne consegue che tale “contabilità in nero”, per il suo valore probatorio, legittima di per sé, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo, di cui ai citati articoli 39 e 54, incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli (cfr, tra le altre, Cassazione sentenze 6949 e 25610 del 2006, 24051/2011 e 8625/2012).

Conclusioni
Il principio enunciato dalla Corte, in tema di “contabilità in nero”, rappresenta oramai un approdo giurisprudenziale consolidato.
Abbiamo già avuto occasione di affrontare questo tema, commentando la sentenza n. 4126/2013 (vedi articolo “Gli appunti dell’imprenditore bastano a individuare l’evasione”, dell’8 marzo scorso). In quella sede, è stato sottolineato come, qualora vengano rivenuti documenti non ufficiali, è onere del contribuente opporre valide ragioni che destituiscano di fondamento la presunta veridicità della documentazione reperita. In caso contrario, trova necessariamente accoglimento la ricostruzione dell'ufficio, pur fondata solo su documenti extracontabili.

Ed è esattamente quello che è accaduto nel caso concreto: il contribuente non è stato in grado di dimostrare che le annotazioni trovate presso il suo domicilio riguardassero spese di carattere personale, e non compensi percepiti e non contabilizzati.
A niente, dunque, giova una contestazione generica e non circostanziata.


Fonte: Agenzia Entrate

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