Nella sentenza n. 289 del 29 luglio scorso, i giudici della Ctp di Roma affrontano la questione dell’impugnabilità della risposta resa dall’ufficio all’interpello presentato dal contribuente, affermando a chiare lettere che è inammissibile il ricorso avverso la comunicazione di risposta dell’Amministrazione finanziaria, formulata in esito alla trattazione di un interpello volto a ottenere la disapplicazione del regime delle imprese estere controllate o collegate (Controlled foreign companies).

Quadro normativo
Le disposizioni di cui all’articolo 168 del Tuir (disciplina Cfc o Cfc rule) prevedono la tassazione per “trasparenza”, in capo al socio residente nel territorio dello Stato, del reddito prodotto dalla partecipata estera, localizzata in uno Stato o territorio a fiscalità privilegiata.
Tali disposizioni possono essere disapplicate qualora il soggetto residente dimostri, mediante la presentazione di un’istanza di interpello, alternativamente, che la partecipata non residente svolge un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, “nel mercato dello stato o territorio di insediamento” (articolo 167, comma 5, lettera a), del Tuir – cosiddetta prima esimente) ovvero che dalla partecipazione non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata, inclusi nella black list del decreto ministeriale del 21 novembre 2001 (articolo 167, comma 5, lettera b), del Tuir – seconda esimente). Quest’ultima condizione ricorre, ad esempio, quando il socio italiano dimostra che i redditi conseguiti dalla partecipata estera sono prodotti “in misura non inferiore al 75 per cento” in Stati o territori non inclusi nella citata black list “ed ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria” (articolo 5, comma 3, del Dm 429/2001).

Ai fini della disapplicazione dei regimi Cfc per le società controllate e collegate, come anticipato, occorre adire in via preventiva la procedura di interpello, di cui all’articolo 11 della legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente). L’interpello ha carattere preventivo, nel senso che il contribuente ha l’onere di interpellare l’Amministrazione prima della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta per il quale si intendono fare valere le esimenti di legge (circolare n. 18/2002).

Vicenda processuale
La controversia ruota, essenzialmente, intorno all’impugnazione, da parte di una società residente nel territorio dello Stato, della risposta resa dall’ufficio in esito alla trattazione dell’interpello con cui l’istante chiedeva la disapplicazione del regime Cfc, relativamente ai redditi conseguiti da una società partecipata estera avente sede presso le Isole Cayman.
In particolare, l’istante, al fine di beneficiare dell’esenzione parziale sull’eventuale plusvalenza conseguita in seguito alla cessione della partecipazione nella collegata, invocava la sussistenza della seconda esimente, intendendo dimostrare che, sin dall’inizio del periodo di possesso, dalla predetta partecipazione non era stato conseguito l’effetto di localizzare i redditi alle Isole Cayman, in quanto, almeno il 75% del reddito della collegata era stato prodotto in Stati o territori non black list e ivi sottoposto integralmente a tassazione ordinaria.

L’ufficio, considerata l’assenza di idonei riscontri documentali, dichiarava l’inammissibilità dell’istanza di interpello “per mancata o incompleta descrizione della fattispecie”.

La decisione
Con la sentenza n. 289 del 29 luglio, i giudici della Ctp di Roma affermano che “il provvedimento oggetto del presente giudizio non è provvedimento di definitivo diniego della richiesta, bensì sostanzialmente interlocutorio, con il quale non si respinge nel merito l’istanza medesima, ma se ne rileva la carenza, sul piano della descrizione della situazione e delle correlative allegazioni documentali”.
Più in generale, gli stessi giudici hanno evidenziato che “tale conclusione è la sola compatibile con i canoni fondamentali del processo tributario, quali si rinvengono enucleati anche nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Le stesse, anche recentemente (sent. n. 20931 del 2011), hanno ribadito che l’elenco degli atti impugnabili, ex art. 19 d.lgs. 1992 n. 546, va si interpretato in senso estensivo, ma pur sempre deve trattarsi di un atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa impositiva. La inammissibilità dell’impugnativa esclude la possibilità di esaminare la fondatezza delle ragioni fatte valere dal contribuente. In tal modo, infatti, verrebbe a configurarsi un’azione di accertamento nei riguardi dell’Amministrazione finanziaria che è estranea alla struttura del processo tributario, anche secondo l’orientamento costantemente espresso dalla Sezioni Unite della cassazione (sentenza 2007 n. 24° 11; 2006 n. 20889; 2001 n. 103)”.

Osservazioni
La risposta dell’Amministrazione finanziaria all’istanza di interpello non viene annoverata tra i provvedimenti impugnabili indicati nel primo comma del citato articolo 19, che elenca in maniera tassativa gli atti impugnabili davanti al giudice tributario, prevedendo espressamente, al comma 3, che “gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente”.
A seguito, poi, delle modifiche introdotte nell’articolo 2 del Dlgs 546/1992 dalle leggi 448/2001 e 203/2005, “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati …”.

In aggiunta agli atti indicati nell’articolo 19, comma 1, Dlgs 546/1992, la giurisprudenza ha ammesso l’impugnabilità di altri provvedimenti, seppure non immediatamente riconducibili alle fattispecie tipizzate dal citato articolo. Questo non sta a significare, tuttavia, che tutti gli atti, anche quelli a mero contenuto consultivo e che non contengono una pretesa tributaria ben individuata, siano impugnabili.
Al contrario, è stato ripetutamente chiarito, anche dalla Cassazione, che restano privi di tutela i provvedimenti aventi carattere generale che non influiscono immediatamente sulla situazione tributaria del contribuente, né lo vincolano alla tenuta di una certa condotta. Più in dettaglio, con la sentenza 17202/2009, la Corte suprema ha affermato che l’elencazione degli atti contenuta nell’articolo 19 “pur dovendosi considerare tassativa, va interpretata in senso estensivo (…). Ciò comporta la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è "naturaliter" preordinato, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 citato. Di conseguenza nell’elencazione dell’art. 19 va incluso ogni atto che non rappresenti un mero invito bonario preordinato ad un dialogo preventivo con il contribuente (…) bensì un vero e proprio atto autoritativo volto a portare a conoscenza del contribuente una pretesa già formata e ben individuata nell’an e nel quantum con intimazione ad esaudirla sotto pena degli atti esecutivi”.

Di recente, inoltre, la Cassazione (cfr sentenza 7344/2012) ha confermato l’impugnabilità di “qualsiasi atto formato dall’Amministrazione finanziaria, purché sia volto a rendere nota una pretesa compiuta e definita”. A ciò si aggiunga che la risposta negativa all’istanza, essendo emessa nell’ambito dell’attività di consulenza giuridica svolta dall’Agenzia in sede di interpello e non contenendo alcuna pretesa tributaria oggettivamente definita, non rientra tra gli atti suscettibili di formare oggetto di una controversia tributaria (cfr Ctp di Firenze n. 36 del 2 agosto 2013).

La posizione dell’Agenzia delle Entrate sulla natura del parere reso in sede di interpello e sulla non impugnabilità è stata chiarita in numerosi documenti di prassi (circolari nn. 7/2009 e 32/2010), da ultimo, con la circolare n. 51/2010, laddove l’Amministrazione ha specificato che “Il parere reso dall’Agenzia delle entrate non è vincolante per il contribuente, che resta libero di decidere se uniformarsi o meno alla risposta ottenuta. Il carattere non vincolante di tale parere comporta che, nel caso in cui l’istante decida di non uniformarsi alla risposta ottenuta, resta per lui impregiudicata la possibilità di dimostrare anche successivamente – ad esempio in sede di contenzioso – la sussistenza delle condizioni che consentono la disapplicazione della CFC rule”.

In conclusione, si ritiene che la risposta resa in sede di interpello non presenti i requisiti minimi per l’impugnabilità, dal momento che essa non rappresenta esercizio di un potere autoritativo con il quale si esercita una pretesa fiscale, bensì ha natura meramente consultiva. In tale sede, l’Amministrazione finanziaria esprime, infatti, un parere basandosi esclusivamente sui documenti prodotti dal contribuente alla presentazione dell’istanza. Si tratta quindi di un monitoraggio preventivo e “sommario”, in cui l’Amministrazione formula un giudizio sulla base delle sole risultanze documentali, senza appurare, come invece avviene in sede di accertamento, che le stesse rappresentino l’effettiva realtà contributiva del soggetto. In definitiva, il carattere non vincolante del parere reso in questa fase è quindi direttamente desumibile dalla natura consultiva dell’attività svolta dall’Amministrazione.


Fonte: Agenzia Entrate

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