Con ordinanza n. 15968 del 25 giugno, la Cassazione, ritornando sul tema dell’elusione fiscale, ha affermato che non versare i canoni di affitto dell’azienda è quanto meno operazione elusiva quando vi sia contiguità tra le parti del contratto, per essere i soci della società conduttrice anche componenti, assieme al padre, della compagine sociale della società locatrice.
Di conseguenza, è stato ritenuto legittimo l’operato dell’Amministrazione finanziaria che aveva provveduto al recupero, nei confronti della società conduttrice, dei canoni di affitto non versati, a titolo di sopravvenienza attiva.

La vicenda processuale
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione avverso una sentenza della Ctr della Toscana che, respingendo l’appello dell’ufficio, aveva annullato l’avviso di accertamento emanato nei confronti di una società e dei rispettivi soci. In particolare, il giudice di secondo grado osservava che:
in relazione alla percentuale di ricarico, l’ufficio avrebbe dovuto adottare il metodo della media ponderale piuttosto che la media semplice
in merito alla deduzione dei costi, l’operato della società accertata era stato corretto, avendo la stessa operato la deduzione secondo i canoni (di certezza e obiettiva determinabilità) di cui all’articolo 109 del Tuir
quanto al recupero di alcune sopravvenienze attive, le somme non pagate a titolo di canone per l’affitto di azienda non rappresentavano una rinuncia al credito da parte della società locatrice (la cui compagnie societaria in parte coincideva con quella della società affittuaria), ma al più una tolleranza, trattandosi di soggetti legati da stretti legami familiari (quindi, i crediti della società locatrice non potevano essere considerati come proventi per l’affittuaria).
Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia, contestando solo quest’ultimo punto, deduceva la violazione di legge, in quanto la Ctr non considerava che la ripresa a tassazione dei canoni di affitto, non corrisposti per diversi anni, scaturiva dalla evidente finalità dei contribuenti di ricavare solo dei vantaggi fiscali dall’affitto medesimo, tanto più che nel relativo contratto era espressamente previsto che il ritardo di un solo mese comportava il diritto alla risoluzione del negozio. La ripresa era motivata anche in considerazione della contiguità delle due compagini societarie: tutto ciò dimostrava che l’unica finalità dell’operazione era quella di consentire la deduzione di costi presunti, che in realtà non venivano sopportati in quanto mancava la relativa manifestazione finanziaria. Di qui, la legittimità del recupero di tali costi a titolo di sopravvenienza attiva.

La pronuncia della Cassazione
La Corte suprema, in accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassa senza rinvio la sentenza di secondo grado e, decidendo nel merito ai sensi dell’articolo 384 cpc, rigetta il ricorso introduttivo dei contribuenti (ovviamente per la parte ancora in contestazione).
I giudici di legittimità partono da un dato di fatto pacifico: la proprietà dell’azienda fittata appartiene a una società di cui fanno parte gli stessi soci della società affittuaria, nonché il loro padre. Tale situazione “comporta la presunzione di un'ipotesi, quanto meno, di elusione fiscale”.

In punto di diritto, la Corte ricorda che, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.

Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (come le imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione (articoli 23 e 53 della Costituzione), e non contrasta con quello della riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi conclusi al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Esso comporta l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretende far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione (cfr Cassazione sezioni unite, pronuncia n. 30055/2008).

Anche in tale circostanza, dunque, la Cassazione ha riconosciuto valenza generale alla clausola dell’abuso del diritto, quale principio immanente al nostro ordinamento perché strettamente correlato (almeno in tema di tributi non armonizzati) ai principi costituzionali.


Fonte: Agenzia Entrate

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