Nel settore della ristorazione non esiste un indicatore da preferire rispetto a un altro per la ricostruzione presuntiva dei ricavi, potendo tali indici assumere un peso diverso da caso a caso: con riferimento alla singola fattispecie concreta, spetta all’Amministrazione finanziaria ed eventualmente al giudice di merito individuare quelli più idonei a dimostrare la maggior pretesa tributaria.
Comunque, è legittimo l’accertamento presuntivo operato sulla rideterminazione dei ricavi in base al consumo di caffè e di acqua minerale, perché questi costituiscono ingredienti fondamentali nelle consumazioni richieste dalla clientela.
Tali i principi che si ricavano dal testo della sentenza della Cassazione n. 11622 del 15 maggio.

Il fatto
La pronuncia in commento ha origine dalle sentenze della Commissione tributaria regionale che, in riforma delle pronunce di primo grado, confermavano la legittimità degli avvisi di accertamento, ai fini Irap e Iva, notificati a una società di persone esercente attività di ristorazione e, a fini Irpef, nei confronti dei soci-persone fisiche. I giudici di appello hanno ritenuto legittima la ricostruzione induttiva del maggior imponibile ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, operata dall’ufficio finanziario sulla scorta del consumo di caffè e di acqua minerale.

A parere della Commissione di secondo grado, l’utilizzo di tali indicatori risultava essere addirittura favorevole al contribuente, atteso che non tutti i commensali consumano caffè e acqua.
Non risultava sostenibile, inoltre, il rilievo del contribuente che invocava una riduzione del maggior imponibile constatato sulla base dell’autoconsumo o del consumo diretto da parte di soci, camerieri e cuochi, in quanto il risultato ottenuto era già oggettivamente riduttivo rispetto alla realtà.
I giudici aggiungevano che, a fronte di tali presunzioni, i contribuenti non avevano fornito idonee prove contrarie, limitandosi ad affermare che il consumo dei tovaglioli, traibile dalle fatture relative al servizio di lavaggio, forniva un indicatore più rappresentativo rispetto ai consumi di acqua e caffè.

Avverso le sentenze, proponeva ricorso per cassazione ognuno dei contribuenti accertati.
I motivi di doglianza, identici per ognuno delle parti in causa, sono due.
Con il primo, i contribuenti lamentavano omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, non avendo i giudici d’appello considerato che gli indicatori di consumo presi a base dall’ufficio accertatore, ossia l’acqua minerale e il caffè, fossero più confacenti all’attività di bar che a quella di ristorante, essendo nel caso specifico più significativo il dato relativo al servizio di lavaggio dei tovaglioli.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentavano che l’Agenzia delle Entrate fondava le maggiori pretese fiscali su illegittime presunzioni a catena, senza dar peso probatorio al numero dei tovaglioli che, rapportato al prezzo/coperto stimato dall’ufficio, determinava un volume di ricavi addirittura inferiore a quello dichiarato.
Dopo aver riunito i ricorsi della società di persone e dei soci, la Corte suprema ha deciso per l’infondatezza dei motivi di ricorso e per il conseguente rigetto degli stessi, con condanna dei ricorrenti alle spese del giudizio.

La decisione
Come premessa alla risoluzione della controversia, i giudici di Cassazione hanno tracciato una serie di principi concernenti l’esclusiva attribuzione in capo al giudice di merito circa l’apprezzamento dei fatti e delle prove attinenti la maggior pretesa tributaria accertata dal Fisco.
Solo tale organo giurisdizionale, infatti, può individuare le fonti alla base del proprio convincimento, valutare le prove e controllarne l’attendibilità, nonché “scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova”.
Il giudizio è censurabile soltanto se nel ragionamento vi sono gravi carenze nel criterio logico tanto da non consentire a terzi l’identificazione del procedimento posto alla base della decisione adottata.
E inoltre, con specifico riferimento alla prova per presunzioni, è necessaria una prima valutazione analitica degli elementi indiziari, onde scartare quelli privi di rilevanza e considerare solo quelli che, presi singolarmente, presentino efficacia probatoria.

In un secondo tempo, occorre una valutazione complessiva di tutti gli elementi raccolti per accertare se siano concordanti “e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida presunzione semplice, nel senso che ognuno rafforzi e tragga vigore dall’altro in rapporto di vicendevole completamento” (così Cassazione, sentenza 9108/2013).
In base a tali assunti, non è rilevante il semplice dissenso del contribuente che è in disaccordo sull’accertamento estimativo compiuto dal giudice che ha ritenuto gli indicatori scelti dall’ufficio finanziario preferibili rispetto a quelli da lui “proposti”.

Entrando nel vivo della questione, la Corte suprema ha ribadito che, in tema di accertamento presuntivo e induttivo, “è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate (Sent. n. 17408 del 23.07.2010)”.
Peraltro, non si può sostenere, come nel caso di specie, che la ricostruzione sulla base del “tovagliometro” sia maggiormente apprezzabile rispetto a quello compiuto attraverso altri indicatori, poiché “non può dirsi che, riguardo al settore della ristorazione, vi sia un indicatore “principe” per la ricostruzione presuntiva dei ricavi”.
Infatti, gli indici rivelatori possono cambiare da caso a caso, essendo compito dei funzionari del Fisco e, poi, del giudice tributario di merito “cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta”.

Nella causa sottoposta alla Corte suprema, i giudici di merito hanno ottemperato correttamente a tutte le prescrizioni dettate dalla giurisprudenza di legittimità.
Infatti, essi hanno ben agito allorquando hanno volutamente scartato i dati sul consumo unitario dei tovaglioli emersi dalla fatturazione dei lavaggi, “preferendo” quello del consumo di acqua minerale, il cui giudizio estimativo è stato più volte confermato dalla Cassazione.
La scarsa valenza del numero di tovaglioli consumati è legata anche alle conclusioni illogiche che ne derivano: infatti tale dato conduce, per espressa ammissione del ricorrente, a un ammontare di ricavi inverosimilmente inferiore a quello dichiarato, “il che costituisce indubbio indice rivelatore della inattendibilità dei dati medesimi”.
Si aggiunga che il valore determinato in base ai consumi di acqua minerale, di per sé grave e preciso, è risultato altresì concordante con il dato desunto dal consumo di caffè: con l’iter logico-giuridico seguito, i giudici di merito hanno ben individuato “quella relazione tra fatto noto (consumi) e fatto ignoto (ricavi) che, senza avere i caratteri della necessità, è sufficiente a dimostrare il nesso di derivazione secondo canoni di ragionevole probabilità; sicché si è al cospetto di un’unica presunzione, sia pure articolata su autonome circostanze di fatto”.

Oltretutto, è innegabile che i consumi di acqua minerale e di caffè possono essere inferiori al numero dei pasti effettivi, ben potendo non essere richiesti dalla clientela: ne deriva, pertanto, che il risultato finale così ottenuto è approssimato per difetto, tale da coprire anche l’incidenza dell’autoconsumo (da parte di soci e personale di servizio) ed essere così più favorevole ai contribuenti in causa.


Fonte: Agenzia Entrate

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