Dall'omessa presentazione della contabilità alla Guardia di finanza può scaturire un accertamento induttivo ai fini Iva, anche nel caso in cui non vi sia stato accesso da parte delle autorità competenti alla sede della società contribuente. La legittimità dell'accertamento induttivo è, d'altra parte, comprovata dalla circostanza che la contabilità è stata consegnata, peraltro in fotocopia, dal contribuente soltanto quattro mesi dopo la richiesta.
A chiarirlo è la sezione tributaria della Corte di cassazione, con la sentenza 19871del 14 novembre.

I fatti di causa
La controversia trae origine dall'impugnazione da parte della società contribuente dell'avviso di accertamento Iva, per l'anno d'imposta 2001, scaturito da una determinazione induttiva del volume d'affari effettuata a seguito dell'omessa esibizione della contabilità.

La Guardia di finanza dava inizio alla verifica presso il consulente fiscale della società contribuente, il quale dichiarava che le scritture contabili erano custodite presso la sede dell'impresa. La Gdf si rivolgeva allora all'amministratore dell'ente, il quale declinava ogni responsabilità, sostenendo che le scritture si trovavano, invece, presso il predetto professionista.
Soltanto a distanza di quattro mesi dalla richiesta e per di più in fotocopia, il consulente fiscale consegnava la documentazione fiscale di interesse.

Nel ricorso giurisdizionale, il contribuente contestava la legittimità dell'avviso di accertamento emesso nei suoi confronti sul rilievo principale che le scritture contabili erano state comunque consegnata agli accertatori.
Sia la Commissione tributaria provinciale che quella regionale si esprimevano a favore della parte ricorrente e, conseguentemente, annullavano l'avviso di accertamento Iva.

In particolare, la Ctr rilevava che il mancato accesso della Guardia di finanza presso la sede legale della società costituiva un elemento determinante per respingere l'appello.

Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate, la quale denunciava, oltre a vizi motivazionali, anche la violazione dell'articolo 52, commi 5 e 10, del Dpr 633/1972.

La motivazione
Con la sentenza 19871/2012, la Corte suprema, nell'accogliere il ricorso proposto dall'Amministrazione, ha fornito alcuni chiarimenti in ordine all'accertamento induttivo del reddito, vale a dire quella metodologia di accertamento utilizzata per ricostruire la base imponibile, ai fini delle imposte sui redditi e dell'Iva, prescindendo dalle scritture contabili del contribuente, perché mancanti oppure inattendibili.

Più precisamente, i giudici hanno evidenziato che l'articolo 52 del Dpr 633/1972, il quale stabilisce che "I libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l'esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell'accertamento in sede amministrativa o contenziosa", opera non solo "nell'ipotesi di rifiuto 'doloso' dell'esibizione", ma anche "nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all'ispezione i documenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa" (Cassazione, sentenza 7269/2009).
Osserva, a tal proposito, la Cassazione che il successivo articolo 55 dello stesso decreto - al pari di quanto prevede, con riferimento alle imposte sui redditi, l'articolo 39 del Dpr 600/1972 - "permette il ricorso al metodo induttivo allorché il contribuente non abbia consentito l'ispezione di una o più scritture contabili obbligatorie".

Del tutto irrilevante è, invece, la circostanza che tale indisponibilità possa risultare incolpevole, in quanto tale ipotesi integra di per sé "il requisito normativo della incompletezza della contabilità, con conseguente inattendibilità delle sue risultanze" (Cassazione, sentenza 9201/2011).
Pertanto, "indipendentemente dall'accesso alla sede" della società contribuente, ciò che conta è la circostanza che vi sia stata "una specifica richiesta degli agenti accertatori, non potendo costituire rifiuto la mancata esibizione di qualcosa che non si è domandato" (Cassazione, sentenza 21768/2009).

Rilevato, dunque che, nel caso di specie, tale richiesta era stata ripetutamente avanzata, senza esito positivo, prima nei confronti del professionista di fiducia e poi nei confronti dell'amministratore della società, la Corte di cassazione ha cancellato con rinvio la sentenza di secondo grado, rimettendo nuovamente la decisione della causa alla stessa Commissione tributaria regionale, seppur in diversa composizione, la quale dovrà inevitabilmente tener conto dei principi enunciati dalla Corte di cassazione con la sentenza in commento.

Giurisprudenza conforme
L'orientamento rigoroso espresso dalla Cassazione con la sentenza in commento trova fondamento in altri precedenti giurisprudenziali. In particolare, già con sentenza 7161/1995, la Corte suprema aveva chiarito che il divieto sancito dall'articolo 52 del Dpr 633/1972 "deve ritenersi operante non solo nell'ipotesi di rifiuto (per definizione "doloso") dell'esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all'ispezione i documenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non sensibile, di diritto (cfr. art. 39-bis del D.P.R. n. 636 del 1972) o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa…".

Tale conclusione appare peraltro "rafforzata dall'equiparazione normativa, 'quoad effectum', di codesti comportamenti al rifiuto di esibizione e dalla ragion d'essere di tale equiparazione, sicuramente individuabile nell'esigenza di contemperare il diritto di difesa del cittadino col principio di buona amministrazione, parimenti costituzionalizzato (art. 97 Cost.) e, quindi, non disinvoltamente sacrificabili in presenza di comportamenti che ne ostacolino ingiustificatamente la realizzazione".
Peraltro, tale previsione "si applica, per dettato espresso, anche nell'ipotesi prevista dal successivo comma decimo (aggiunto dall'art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973) e, quindi, anche se l'ispezione dei documenti sia stata impedita non direttamente dal contribuente, ma dalla (diversa) persona che li detiene in un'ipotesi, cioè, nella quale il dolo del primo è difficile da configurare, sì che, nel caso, egli risponde (nel senso che subisce il divieto sotto esame) per semplice "culpa in eligendo"".

Inoltre, con sentenza 1030/2002, la Cassazione aveva precisato che "Per superare la preclusione probatoria, il contribuente può anche addurre la non volontarietà della sottrazione originaria della documentazione poi tardivamente prodotta (v. Cass., S.U. 45/2000), ma deve provare il proprio assunto".


Fonte: Agenzia Entrate

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