E’ legittimo il sequestro preventivo di un immobile che non sia più nella disponibilità dell’imprenditore sottoposto a controllo perché donato al proprio coniuge, se si assicura che l’atto di liberalità è stato compiuto al precipuo scopo di rendere in tutto o in parte inefficace la riscossione della maggior imposta accertata.
In tal caso, vi può essere il pericolo che la libera disponibilità del bene possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, attraverso la cessione della titolarità del bene a terzi, a danno dell’attività di recupero delle imposte dovute.
Questo il principio enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza 44504 del 15 novembre.

Il fatto
La pronuncia trae origine da una procedura di accertamento condotta dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un esercente attività alberghiera, nell’ambito della quale il contribuente controllato aveva presentato istanza di adesione, di cui al Dlgs 218/1997.
Nelle more del procedimento, lo stesso contribuente non aveva perfezionato l’adesione, omettendo il pagamento delle maggiori imposte dovute, ma aveva effettuato un atto di donazione di un proprio immobile in corso di costruzione a favore del consorte, coniugato in regime di separazione dei beni.
Alla luce di tale atto di liberalità, l’ufficio finanziario aveva presentato alla procura della Repubblica apposita comunicazione di notizia di reato, avendo ravvisato nel comportamento del soggetto accertato il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte previsto dall’articolo 11 del Dlgs 74/2000.
Il tribunale, in sede di prima istanza, aveva disposto il sequestro preventivo del fabbricato donato, provvedimento confermato, poi, dal giudice del riesame.
Il contribuente proponeva, quindi, ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del giudice di appello, che aveva respinto la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo, adducendo come motivazione la violazione di legge e il vizio di motivazione.
La Corte di cassazione, ritenendo inammissibile il ricorso del contribuente, ne ha disposto la condanna.

L’iter processuale
L’intera vicenda processuale prende le mosse dall’esame dell’atto dispositivo realizzato dall’imprenditore che, nel corso del procedimento accertativo a proprio carico, aveva donato un fabbricato in corso di costruzione a favore del consorte, coniugato in regime di separazione legale dei beni.
Tale atto di liberalità è stato ritenuto anomalo dall’ufficio accertatore, considerato che il contribuente era perfettamente consapevole del proprio passivo nei confronti del fisco, avendo all’uopo proposto l’accertamento con adesione.
In altre parole, gli agenti del fisco hanno ritenuto che l’atto di donazione disposto dal contribuente accertato, unitamente all’aspetto psicologico della propria consapevolezza, costituissero validi requisiti per il ravvisarsi del reato di cui all’articolo 11 del Dlgs 74/2000.

La norma, infatti, contempla il caso del soggetto che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte dirette e indirette, nonché degli interessi e delle sanzioni a esse riferibili, alieni simulatamente o compia atti fraudolenti sui beni, propri o di altrui, al fine di rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva.
In tal caso, è prevista la sanzione della reclusione da sei mesi a quattro anni, elevabili da uno a sei anni se imposte, sanzioni e interessi sono superiori a 200mila euro.

L’ulteriore contributo alla vicenda da parte dei giudici della Cassazione, che sul punto hanno avallato la decisione dei giudici di merito, consiste nell’aver appurato che gli indizi contenuti nella denuncia di notizia di reato, proposta dall’Agenzia delle Entrate, fossero tali da giustificare l’emissione di un provvedimento di sequestro preventivo sul bene donato dall’imputato al coniuge, essendo ravvisabili i presupposti del “fumus commissi delicti” e del “periculum in mora”.

Al riguardo, l’articolo 1, comma 143, della legge 244/2007, ha introdotto le disposizioni relative alla “confisca” per i delitti di natura tributaria, tra cui il reato di cui all’articolo 11 del Dlgs 74/2000.
A tal fine, ai sensi dell’articolo 321, comma 2, cpp, il giudice può disporre il sequestro in via preventiva dei beni, per un valore pari al profitto conseguito dall’imputato per effetto del reato, determinato nell’ambito della procedura di accertamento tributario esperito dall’Amministrazione finanziaria.

Nel caso concreto, secondo la Corte suprema, i giudici di merito avevano correttamente rilevato l’esistenza del “fumus commissi delicti”, poiché la corrispondenza tra il fatto per il quale si procedeva e la tipologia criminosa era ampiamente riscontrabile alla luce degli indizi rilevati dall’Amministrazione finanziaria.
Ugualmente ineccepibile è apparsa l’ulteriore considerazione che sussistesse il reale pericolo che la libera disponibilità dell’immobile in sequestro potesse aggravare o protrarre le conseguenze del supposto reato, atteso che fosse ben possibile trasferire la titolarità del bene a terzi.

Da quanto rilevato nel corso del procedimento i giudici, di merito e di legittimità, hanno concluso che l’atto di donazione è stato effettuato all’unico scopo di eludere l’assoggettamento del bene alle azioni erariali, per cui l’apparente trasferimento dell’immobile è servito a commettere il reato di fraudolenta evasione (cfr Cassazione, sentenza 36838/2009).


Fonte: Agenzia Entrate

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