La disciplina del “raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento in presenza di una notizia di reato tributario” ha, sin dalla sua introduzione, generato una serie di dubbi e incertezze interpretative.
Con sentenza 247 del 25 luglio 2011, la Consulta si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale della relativa disciplina, enunciando, nel contempo, una serie di principi sulla corretta interpretazione della stessa. Di tali principi, tuttavia, la giurisprudenza di merito fa, talvolta, un’applicazione che desta alcune perplessità. È il caso, ad esempio, della sentenza 74/01/12 del 19 giugno 2012, della Commissione tributaria provinciale di Lecco.

La disciplina del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento
Al fine di inquadrare la problematica, sembra utile premettere alcuni cenni in ordine alla normativa in argomento.
La disciplina del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento, in presenza di una notizia di reato tributario, è stata introdotta dall’articolo 37, commi 24, 25 e 26, del decreto legge 223/2006.
In particolare, il comma 24 ha integrato l’articolo 43 del Dpr 600/1973, tramite l’inserimento del terzo comma, in base al quale “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.
Medesima previsione è stata introdotta dal comma 25, per l’accertamento in materia di Iva, con l’inserimento del comma terzo nell’articolo 57 del Dpr 633/1972.

In virtù delle citate norme, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento sono raddoppiati qualora il pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, constati una violazione per la quale sussiste l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 74/2000.
Per quanto concerne, invece, la decorrenza delle predette modifiche normative, l’articolo 37, comma 26, del Dl 223/2006, ha stabilito che il raddoppio dei termini trova applicazione a decorrere dal periodo di imposta per il quale, alla data di entrata in vigore dello stesso Dl 223 (il 4 luglio 2006), sono ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento.

La sentenza della Ctp di Lecco
Nel caso sottoposto all’attenzione della Commissione tributaria provinciale di Lecco, alla società ricorrente erano state contestate, in relazione all’anno d’imposta 2004, operazioni soggettivamente inesistenti, integranti, dunque, una fattispecie di reato tributario ai sensi del Dlgs 74/2000.
Sulla base di tale rilievo, l’Agenzia delle Entrate, nel 2011, aveva notificato alla società un avviso di accertamento ai fini Ires, Iva e Irap.
Con ricorso alla Ctp di Lecco, la società aveva chiesto l’annullamento dell’avviso di accertamento, eccependo, in via preliminare, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere accertativo.

Ad avviso della ricorrente, infatti, nel caso concreto non si sarebbero verificati i presupposti richiesti dagli articoli 43, comma 3, del Dpr 600/1973, e 57, comma 3, del Dpr 633/1972, per l’applicazione del raddoppio dei termini per l’accertamento.
Pertanto, dovendo trovare applicazione il termine ordinario – di cui agli articoli 43, comma 1, del Dpr 600/1973, e 57, comma 1, del Dpr 633/1972 – la decadenza si sarebbe verificata il 31 dicembre 2009; due anni prima, dunque, della notifica dell’atto impugnato.

Con la sentenza 74/01/12 del 19 giugno 2012, la Ctp di Lecco ha accolto l’eccezione di parte – dichiarando la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere accertativo e, conseguentemente, la nullità dell’avviso di accertamento impugnato – perché “non è stata fornita alcuna prova in ordine alla denuncia di reato presentata; circostanza questa che impedisce all’adito Giudice di verificare la sussistenza dei presupposti indicati dall’art. 43, co. 3, DPR n. 600/1973 e, quindi, il legittimo ricorso al raddoppio dei termini per l’accertamento”.

Nel motivare la propria decisione, la Ctp ha affermato di aver applicato i principi espressi dalla Consulta con la sentenza 247/2011.
In particolare, osserva il giudice di merito, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, “a presidio del corretto uso del raddoppio dei termini”, la normativa prevede “l’obbligo della denuncia penale “senza ritardo” ex art. 331 c.p.p., sanzionato penalmente ai sensi dell’art. 361 c.p.” e “il dovere del Giudice tributario di vagliare autonomamente (o su richiesta del contribuente) la presenza dell’obbligo di denuncia (non dell’esistenza del reato) con il potere di disconoscere l’applicabilità del termine raddoppiato ricorrendone i presupposti”.

La sentenza della Corte costituzionale e la notizia di reato
Le affermazioni contenute nella pronuncia della Ctp di Lecco esaminata suscitano alcune perplessità.
Infatti, in tema di rapporto esistente tra il raddoppio dei termini e la denuncia all’autorità giudiziaria, con la sentenza 247/2011, la Corte costituzionale ha precisato che “il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale”.

In altri termini, per la Consulta, unica condizione affinché operi la normativa sul raddoppio dei termini è la constatazione dell’esistenza di una violazione per la quale sussiste l’obbligo di denuncia di reato tributario ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., indipendentemente dalla circostanza che tale obbligo sia stato, o meno, adempiuto.

Inoltre, la stessa Corte ha chiarito che l’obbligo di denuncia “sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale” e che “la lettera della legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciate nel senso che il raddoppio dei termini presuppone necessariamente un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato”.
Peraltro, subordinare il raddoppio dei termini a un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato, “contrasterebbe anche con il vigente regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento e processo tributari, evidenziato dall'art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000”.

Dalle affermazioni della Corte costituzionale consegue che non assumono rilievo, ai fini dell’operatività del raddoppio dei termini:
l’effettiva presentazione della denuncia di reato tributario al Pubblico ministero
l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico ministero, ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione
la successiva emanazione di una sentenza penale di condanna o di assoluzione da parte dell’Autorità giudiziaria.

Alla luce dei principi esaminati, si comprende che “il dovere del Giudice tributario di vagliare autonomamente (o su richiesta del contribuente) la presenza dell’obbligo di denuncia” – richiamato dalla Ctp di Lecco – consiste in una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) in ordine alla sola sussistenza dell’obbligo di denuncia (ex articolo 331 c.p.p.) e non in merito all’effettiva presentazione della stessa.

Quindi, proprio per impedire che la normativa sul raddoppio fosse utilizzata in maniera distorta (ad esempio, inoltrando notizie di reato palesemente infondate al solo fine di beneficiare del più ampio termine decadenziale), la Corte costituzionale ha rimesso al giudice di merito il compito di verificare l’obiettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’articolo 331 c.p.p. per l’insorgere dell’obbligo di denuncia penale in capo al pubblico ufficiale.

Al riguardo, con la sentenza 247/2011 è stato evidenziato che tale obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale “sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione e di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita ”.
È necessario, pertanto, che il pubblico ufficiale sia in grado di identificare gli elementi costitutivi del reato e, conseguentemente, di delineare una notizia di reato sufficientemente circostanziata.

Sul punto, la Consulta ha inoltre chiarito che il pubblico ufficiale “non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia ma deve presentarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 cod. pen. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia”. In altri termini, il ritardo o l’omissione della denuncia assumono rilevanza sotto il profilo della responsabilità penale del pubblico ufficiale, e non, invece, sotto quello dell’operatività del raddoppio.

Alla luce di quanto esposto, non appaiono condivisibili quelle pronunce dei giudici di merito nelle quali è richiesta, per l’applicabilità del più ampio termine decadenziale, la verifica di elementi ulteriori rispetto all’unico presupposto dell’obbligo di denuncia in presenza di una notizia di reato tributario.

Pertanto, non resta che attendere una pronuncia della Corte di cassazione che possa ulteriormente chiarire come la normativa sul raddoppio dei termini per l’accertamento debba essere correttamente applicata secondo i criteri già indicati dalla Corte costituzionale.
In ogni caso, sulla normativa vigente non può ritenersi che sortisca alcun effetto la disposizione inserita nel disegno di legge delega al Governo “recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente ed orientato alla crescita”, attualmente all’esame del Senato, che introduce limiti più rigorosi all’applicabilità del termine per l’accertamento raddoppiato.
Semmai, la previsione di cui al disegno di legge delega conferma che la vigente disciplina sul raddoppio dei termini per l’accertamento va intesa sempre e soltanto nel senso chiaramente indicato dalla Consulta nella sentenza 247/2011.


Fonte: Agenzia Entrate

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