Con la sentenza 16959 del 5 ottobre, la Corte suprema ha affrontato, seppur in via incidentale, la questione relativa all’ammissibilità della produzione di nuovi documenti in appello nel giudizio tributario.
In particolare, nel caso portato all’attenzione dei giudici di legittimità, il contribuente, tra i motivi di ricorso, lamentava la violazione di norme di legge data dal comportamento dell’ufficio, “reo” di aver depositato per la prima volta, in sede di appello, una circolare dell’Agenzia delle Entrate regolante la materia dedotta in giudizio.
A parere della parte, che nel giudizio davanti alla Ctr non si era costituita, tale produzione “tardiva” avrebbe violato la previsione di cui al primo comma dell’articolo 58 del Dlgs 546/1992, precludendo al contribuente la possibilità di svolgere “un’adeguata difesa”.

In pratica, l’articolo 58, al comma 1, afferma che “il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione, o che la parte non dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio, per causa ad essa non imputabile”.
Tuttavia, il comma successivo della norma in esame, ponendosi, almeno parzialmente, in contrasto con quanto appena illustrato, stabilisce un’eccezione alla predetta regola, asserendo che “è fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.

Si tratta, chiaramente, di un’eccezione la cui rilevanza si rivela tutt’altro che secondaria, ove si consideri che, in una materia come quella tributaria, in assenza di prove orali, quella documentale è la prova per eccellenza.

Il processo tributario è, infatti, tipicamente fondato su elementi quasi esclusivamente documentali: in tal senso, tra l’altro, si esprime il comma 4 dell’articolo 7 del medesimo Dlgs 546/1992, secondo cui “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.
È pertanto evidente come, in un simile contesto, la possibilità, per le parti, di produrre nuovi documenti in appello può presentare notevoli problemi di compatibilità – con annesse contestazioni in giudizio – con il divieto di introdurre nuove prove in sede di gravame previsto al primo comma dell’articolo 58.

Molto spesso, infatti, il confine distintivo tra prova e documento, oggetto della disciplina in argomento, può non essere di immediata percezione, con ciò comportando il rischio che in sede di appello il giudice consenta la produzione di prove altrimenti vietate dal comma 1 o, viceversa, rigetti il deposito di documenti in senso proprio, ammessi dal secondo comma.

In dottrina si definisce “prova” la dimostrazione di un fatto data, in sede di giudizio, da una delle parti ai fini di avvalorare le proprie affermazioni.

Tra le fonti di prova in senso “stretto” possono, quindi, identificarsi tutte le rappresentazioni relative alle attività istruttorie previste dal primo comma dell’articolo 7, cui si possono aggiungere, sempre secondo dottrina, le dichiarazioni di terzi e le testimonianze rese per iscritto.

In merito alla nozione di documenti in senso proprio, si suole ritenere che, ai fini dell’ammissibilità della loro produzione in appello, debbano considerarsi tali quelli aventi esclusivamente a oggetto deduzioni e allegazioni già poste in essere e svolte in primo grado.

Ancor più dettagliatamente, la dottrina civilistica riconduce a tale nozione tutti gli oggetti materiali idonei a rappresentare o a dare conoscenza di un fatto dedotto in giudizio. In tale prospettiva rientrano, quindi, tra i documenti: istanze di autotutela, dichiarazioni dei redditi, processi verbali di constatazione, atti pubblici e scritture private attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, fotografie e perizie tecniche di parte, mentre è dibattuta la natura della Ctu disposta dal giudice, considerata quale mezzo istruttorio volto all’integrazione delle conoscenze e delle attività del giudice.

Premessa la distinzione tra gli atti la cui produzione in appello è preclusa dal comma 1 dell’articolo 58 e i documenti liberamente producibili in sede di gravame ai sensi del successivo comma, un discorso a parte merita, invece, l’allegazione di precedenti giurisprudenziali, articoli di dottrina e indicazioni di prassi che, al pari di quanto avviene in sede civile, possono essere esibiti e prodotti in giudizio anche nel corso della discussione della controversia, senza sottostare, dunque, neppure al limite temporale di cui all’articolo 32 del Dlgs 546/1992.

Proprio in tale ottica si inserisce la sentenza in esame, nella quale la Corte di cassazione ha, dapprima, puntualizzato come la doglianza del ricorrente fosse, in primo luogo, infondata “dal momento che in tema di contenzioso tributario, l'art. 58, secondo comma, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha espressamente previsto e consentito la produzione di nuovi documenti in appello. (…) Ne consegue che, nel processo tributario, mentre prove ulteriori, rispetto a quelle già acquisite nel giudizio di primo grado, non possono essere disposte in appello, salvo che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio, i documenti possono essere liberamente prodotti anche in sede di gravame, ancorché preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenza n. 16916 del 16/08/2005; Sezioni Unite: n. 8203 del 2005)” e ha fatto, comunque, salvo il deposito “tardivo” del documento proposto in appello, sullo specifico presupposto che “si trattava di una circolare”.

Tale regola, ancorchè non codificata, era stata invero già confermata da alcune sentenze di merito, nelle quali era stato specificato come tale documentazione possa “essere legittimamente assunta anche al di fuori dello stretto ambito giudiziale (ad. es. attraverso la consultazione di riviste specializzate, di banche dati…)” (cfr Ctc 5838/1997 e Ctp Torino 26/2001).


Fonte: Agenzia Entrate

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