Con la sentenza 17010/2012 la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla impugnabilità dell’“interpello disapplicativo” di cui all’articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 600/1973, fornendo delle argomentazioni diverse da quelle contenute nella sentenza 8663/2011.

La Commissione regionale riteneva inammissibile il ricorso proposto dal contribuente contro il provvedimento con cui il direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto inammissibile per tardività l’istanza di interpello per la disapplicazione dell’articolo 172, comma 7, del Tuir presentata dal contribuente ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 600/1973.
Secondo la Corte di merito non poteva ravvisarsi un interesse ad agire da parte del contribuente perché l’interpello disapplicativo non ha natura provvedimentale non ledendo alcun interesse legittimo o diritto soggettivo del contribuente e non rientrando, perciò, tra le fattispecie tassative elencate dall’articolo 19 del Dlgs 546/1992.

Il contribuente ha presentato ricorso per cassazione sulla base di due motivi:
violazione e falsa applicazione dell’articolo 19 del Dlgs 546/1992, in quanto l’interpello disapplicativo, pur non traducendosi in un diniego di agevolazione in senso tecnico, risponde alla funzione di “liberazione” degli effetti che la legge stessa ricollega al verificarsi dei presupposti in presenza dei quali è possibile procedere all’applicazione di un regime impositivo diverso da quello ordinariamente applicabile
nell’ipotesi in cui la sentenza impugnata debba interpretarsi nel senso di contenere un diniego di giurisdizione del giudice tributario in ordine alle controversie come quella in esame, violazione degli articoli 2 e 19 del Dlgs 546/1992, in quanto il criterio di delimitazione dei confini della giurisdizione tributaria è rappresentato dalla natura della controversia, nella specie senza dubbio squisitamente tributaria.
Con specifico riferimento al primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate ha replicato sostenendo:
la natura di mero parere della risposta all’interpello in esame, inidonea a incidere sulla situazione giuridica soggettiva del contribuente, il quale resta libero di ritenere l’operazione non elusiva, riservandosi di far valere le sue ragioni qualora l’Amministrazione dovesse intervenire con provvedimenti di accertamento
la non condivisibilità della sentenza 8663/2011 della Cassazione, la quale ha affermato l’onere di impugnazione, a pena di decadenza, della risposta negativa all’interpello, sia perché tale provvedimento non può essere considerato un rifiuto di agevolazione fiscale (atto elencato nel citato articolo 19), sia perché la non impugnabilità consente anche agli uffici, a fronte di un iniziale diniego, di rivalutare la situazione in sede di accertamento, pervenendo magari a una scelta di legittimità dell’operato del contribuente, evitando un inutile incremento del contenzioso (sul punto, l’Agenzia delle Entrate, a seguito delle posizioni assunte con le circolari nn. 5 e 14 del 2007 e n. 7 del 2009, è intervenuta con la circolare n. 32/2010).
Ciò premesso, il Supremo collegio ha ritenuto inammissibile il secondo motivo proposto dal contribuente perché basato su un presupposto insussistente, dal momento che la rilevazione da parte del giudice di merito della improponibilità assoluta della domanda per carenza di interesse ad agire non dà luogo a un’ipotesi di difetto di giurisdizione, che il giudice di merito non ha quindi inteso affatto affermare.

La Corte ha invece accolto il primo motivo di ricorso, rinviando ad altra sezione della Commissione tributaria regionale la controversia.

Particolare importanza riveste l’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte per addivenire alla predetta conclusione.
Dopo aver richiamato quanto disposto dalla sentenza 8663/2011, la Corte ha precisato di doversi discostare dalla stessa nei limiti e nei sensi di seguito precisati.
In primo luogo, la Corte ritiene di non condividere la tesi secondo cui la risposta negativa all’interpello in esame si qualificherebbe come diniego di agevolazione fiscale, con la naturale conseguenza dell’onere di impugnazione, in mancanza della quale l’atto diviene intangibile.
Sul piano strettamente tecnico va, infatti, esclusa l’equiparazione tra “agevolazione fiscale” e “disapplicazione di norma antielusiva”, rispondendo a ratio e finalità completamente diverse.
In secondo luogo, non è invocabile nel caso in esame la norma di chiusura di cui alla lettera i) del comma 1 dell’articolo 19, in quanto né nella legge né nel relativo regolamento di attuazione (né, peraltro, nella prassi costante dell’Amministrazione finanziaria) si prevede l’autonoma impugnabilità del provvedimento in esame.

Di qui il primo punto fermo della vicenda: il provvedimento di disapplicazione non può essere ritenuto obbligatoriamente impugnabile, dovendosi escludere, per ovvie ragioni di certezza dei rapporti giuridici e di tutela del diritto di difesa, che possa essere introdotta per via interpretativa una decadenza del contribuente dal diritto di contestare una pretesa tributaria, decadenza inevitabilmente conseguente alla sola omessa impugnazione di uno degli atti tassativamente elencati nell’articolo 19.

Ciò posto, la Corte di cassazione, ancorandosi a un orientamento consolidato e basato sui principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della Pubblica amministrazione, ha tuttavia ritenuto che la natura tassativa dell’elencazione degli atti impugnabili di cui all’articolo 19 non comporta che l’impugnazione di atti diversi da quelli ivi specificamente indicati sia in ogni caso da ritenere inammissibile.
E ciò in quanto sorge in capo al contribuente, già al momento di ricezione della notizia, l’interesse ex articolo 100 cpc a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, a invocare una tutela giurisdizionale di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva.

L’unica rilevante differenza rispetto agli atti elencati nell’articolo 19 è che la mancata impugnazione di atti non tassativamente ivi elencati non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità da parte del contribuente di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento allorché la stessa si traduca in un atto impositivo espressamente menzionato nell’articolo 19.

Ebbene, secondo i Supremi giudici, i predetti principi sono applicabili anche al caso specifico dell’interpello disapplicativo. Sempre secondo la Corte, vari elementi escludono la natura meramente endoprocedimentale o di semplice parere interpretativo dell’atto in esame: l’istanza è obbligatoria, è soggetta a richieste istruttorie ed è volta ad ottenere un atto dell’Amministrazione che ha l’immediato effetto di incidere sulla condotta dell’istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata.
Di qui il riconoscimento dell’immediato interesse ex articolo 100 cpc a invocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto in esame.

La Corte ha da ultimo avvertito la necessità di doversi soffermare sulla mancanza di efficacia vincolante dell’atto in esame nei confronti del contribuente.
La risposta negativa all’interpello non impedisce all’Amministrazione finanziaria di rivalutare – in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso presentata dal contribuente a seguito di adeguamento alla risposta negativa, ritenuta illegittima – l’orientamento (negativo) precedentemente espresso, né al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva.
Resta fermo, invece, che la risposta positiva del direttore regionale impedisce all’Amministrazione – a condizione, ovviamente, che i fatti accertati in sede di controllo della dichiarazione corrispondano a quelli rappresentati nell’istanza – l’applicazione della norma antielusiva oggetto di interpello, e ciò in applicazione del principio di tutela dell’affidamento.


Fonte: Agenzia Entrate

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