Con la sentenza n. 11949 del 13 luglio la Cassazione è ritornata sulla problematica dei prezzi di trasferimento ribadendo l'importante principio in base al quale spetta alla società verificata l'onere non solo di dimostrare l'esistenza e l'inerenza dei costi infragruppo sostenuti, ma anche di fornire ogni elemento che consenta all'Amministrazione finanziaria di verificare il "valore normale" dei corrispettivi: ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova.

La vicenda processuale
Con sentenza 164/4/09 la Ctr della Lombardia rigettava l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate avverso la decisione di primo grado che, in accoglimento del ricorso della società contribuente, aveva annullato gli avvisi di accertamento ai fini Irpeg, Irap e Iva per gli anni d'imposta 2003, 2004, 2005 e 2006. Il giudice d'appello riteneva totalmente infondata la pretesa fiscale fatta valere con i suddetti atti impositivi viziati sia in relazione alle riprese per indebite svalutazioni delle rimanenze sia relativamente al recupero di alcuni costi d'acquisto, per i quali l'Amministrazione aveva riconosciuto la non corretta applicazione della normativa sul transfer pricing (articolo 110, comma 7, del Dpr 917/1986), a causa della condotta elusiva posta in essere dalla contribuente.

Avverso la suddetta decisione l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione, denunciando, tra l'altro, violazione dell'articolo 110 di cui sopra, in relazione all'articolo 360, n. 3, cpc, nonché insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, ai sensi dell'articolo 360, n. 5, cpc.

La pronuncia della Cassazione
La società verificata, facente parte di un gruppo multinazionale statunitense che commercializza software per Playstation, nell'ultimo giorno dell'esercizio sociale, contabilizzava una fattura emessa da una consorella britannica (per un importo di circa un milione di euro) con cui venivano rettificati in aumento i prezzi dei prodotti dalla stessa acquistati nel corso dell'esercizio.

L'ufficio, trasfondendo i contenuti del relativo verbale di constatazione, considerava tale operazione come elusiva, in quanto finalizzata al drenaggio degli utili conseguiti dalla società mediante l'abuso dello strumento dei "prezzi di trasferimento".
In tal senso deponevano:
la data dell'operazione, effettuata l'ultimo giorno dell'esercizio fiscale, quando erano noti i consuntivi della redditività delle due società protagoniste dell'operazione
la natura dell'operazione economica, rappresentata da una rettifica in aumento di prezzi già praticati nel corso dell'anno dalla società fornitrice
lo scostamento, a seguito della rettifica, del prezzo praticato con quello medio di acquisto degli stessi prodotti da parte della società italiana.
Ne conseguiva il disconoscimento, da parte dell'Amministrazione, dei costi derivanti dalla suddetta operazione, con conseguente applicazione, ai sensi del combinato disposto degli articoli 110, comma 7, e 9 del Dpr 917/1986, del valore normale dei beni in questione, determinato nel prezzo medio di vendita, epurato delle rettifiche in aumento contestate, applicato dalla venditrice inglese alla società italiana nel corso di tutto l'esercizio esaminato.

La Ctr però rigettava l'appello dell'ufficio sulla base delle seguenti argomentazioni:
l'onere della prova in ordine al comportamento elusivo del contribuente incombe sull'Amministrazione
tale onere non sarebbe stato adempiuto nella fattispecie concreta, a fronte degli elementi di prova forniti invece dalla contribuente e rappresentati da uno studio articolato redatto da una società consulente
non è stata data dimostrazione dell'intento elusivo della contribuente né tanto meno del vantaggio fiscale tratto da tale operazione.
La Corte di cassazione accoglie le censure dell'Agenzia delle Entrate con una pronuncia che si inserisce nel solco di un orientamento consolidato in tema di riparto dell'onere probatorio.
Il problema della ripartizione dei costi infragruppo riguarda, infatti, anche il profilo dell'esistenza e inerenza dei costi sostenuti: "l'onere di fornire la dimostrazione dell'esistenza e dell'inerenza di tali componenti negative del reddito, e qualora si tratti - come nella specie - di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all'amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi non può che cadere - in forza del principio di vicinanza della prova - a carico del contribuente". Nel transfer pricing il profilo dell'inerenza è cioè rappresentato dalla congruità del costo, potendo l'Amministrazione rettificarlo in base al valore normale come previsto dall'articolo 110, comma 7, del Tuir (Cassazione, sentenza 1709 /2007).

In coerenza con tali assunti, alla Corte suprema è parsa evidente l'erroneità della sentenza di secondo grado laddove ha ritenuto non assolto l'onere, da parte dell'Agenzia, di provare, anche per presunzioni, il comportamento elusivo della società contribuente. La sentenza de qua è stata considerata carente anche dal punto di vista motivazionale, in quanto avrebbe omesso l'esame delle numerose presunzioni fornite dalla parte pubblica (sospetta tempistica dell'operazione, natura dell'operazione, caratterizzata dalla rettifica del prezzo inizialmente stabilito, e differenza coi prezzi normalmente praticati dallo stesso fornitore), fondandosi unicamente su una relazione di una società di consulenza incaricata dalla contribuente, tra l'altro neppure sommariamente richiamata in sentenza.

Ulteriori considerazioni
La normativa dei prezzi di trasferimento ha la finalità di consentire all'Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi praticati tra società collegate e/o controllate residenti in Paesi diversi, al fine di evitare che vi siano arbitraggi fiscali diretti a ottimizzare il carico tributario del gruppo, canalizzando il reddito verso società residenti in Paesi caratterizzati da una più mite fiscalità.

Un ruolo fondamentale sotto questo aspetto è assunto dall'articolo 110, comma 7, del Dpr 917/1986 (articolo 76, comma 5 del testo previgente), a norma del quale i componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono controllate, o che sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa nazionale, sono valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ai sensi dell'articolo 9 del Tuir.

La norma costituisce una deroga al principio per cui, nel sistema delle imposte dirette, il reddito viene quantificato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti nella singola operazione commerciale. Nell'ipotesi in cui tali corrispettivi si appalesino inattendibili perché manipolati in danno del Fisco italiano (come spesso accade nell'ambito delle transazioni infragruppo), gli stessi vengono sostituiti dal "valore normale"delle prestazioni.

La disposizione si inserisce nel contesto delle garanzie offerte dalla legislazione italiana a favore del Fisco (si veda ad esempio l'articolo 110, comma 10, del Tuir, in materia di costi black-list), che mirano a evitare la delocalizzazione dei redditi verso Paesi caratterizzati da una fiscalità di vantaggio: a differenza della disciplina dei costi black-list, la norma de qua non contrasta occultamenti di corrispettivi o fenomeni di simulazione ma mira a vanificare le manovre che incidono sul corrispettivo palese, "consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all'altro" a seconda della convenienza del livello di imposizione fiscale.

Per tali caratteristiche deve ritenersi, secondo un'interpretazione ormai diffusa a livello di giurisprudenza di legittimità, che tale disciplina costituisca una clausola antielusiva (rientrante nel concetto comunitario di abuso del diritto) finalizzata a evitare che all'interno di un gruppo societario vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l'applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all'imposizione fiscale in Italia, in favore di legislazioni più miti.

In virtù del fatto che tale materia è intimamente connessa con il fenomeno della doppia imposizione internazionale, è inevitabile che la stessa sia regolata anche da convenzioni e direttive Ocse, soprattutto in materia di oneri di documentazione dei prezzi di trasferimento.
L'ordinamento italiano si è adeguato a una di queste direttive con il decreto legge 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge 122/2010. A tale disposizione ha fatto seguito la circolare 58/E del successivo 15 dicembre che ha chiarito il tipo di documentazione idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati.


Fonte: Agenzia Entrate

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