Con ordinanza 13088 del 25 luglio scorso la Cassazione, ribadendo quanto stabilito in un’altra recente sentenza (la 11214/2011), ha precisato che in tema di stock option è necessario distinguere i due momenti dell’assegnazione del diritto di opzione e di esercizio dello stesso: le azioni sottostanti, infatti, entrano a far parte del patrimonio del dipendente nel momento in cui l’opzione viene esercitata o ceduta e, dunque, la disciplina applicabile ratione temporis è quella vigente al momento di tale esercizio. Questa conclusione è coerente col criterio con cui vengono tassati i redditi di lavoro dipendente, cioè per cassa.

La vicenda processuale
Con sentenza 27/40/06, la Ctr della Lombardia accoglieva l’appello proposto dalla contribuente nei confronti della pronuncia della Ctp di Milano, con cui era stato rigettato il ricorso della stessa contribuente avverso il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate formatosi in relazione a un’istanza di rimborso di ritenute Irpef. Secondo la ricorrente, infatti, la Nokia Italia, in qualità di datore di lavoro, avrebbe indebitamente operato la ritenuta su una plusvalenza realizzata nel 2001, in conseguenza della vendita di opzioni su azioni assegnate in base a un piano di stock option. La decisione della Ctr si basava sull’impossibilità di applicare il regime introdotto con il Dlgs 505/1999 alle assegnazioni di titoli avvenute prima del 1° gennaio 1998, come nel caso di cui sopra.

Contro la seconda sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione, articolando un unico motivo con il quale denunciava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 48, comma 2, lettera g-bis) del Tuir, così come modificato dall’articolo 13 del Dlgs 505/1999, in relazione all’articolo 360, n. 3) del codice di procedura civile.

Cenni sulle stock option
Civilisticamente i piani di stock option configurano una fattispecie eterogenea, complessa, a formazione progressiva. Nella loro forma più comune, al dipendente di una società (solitamente si tratta di dirigenti) viene attribuito, gratuitamente o previo corrispettivo, un diritto di opzione, non cedibile a terzi, per l’acquisto di azioni – della stessa società o di altra facente parte dello stesso gruppo – a un prezzo non inferiore a quello di mercato di queste ultime al momento dell’offerta, prevedendosi contestualmente che l’opzione possa essere esercitata entro determinati limiti, anche temporali.
Di norma, quindi, il piano di stock option prevede un acquisto di titoli articolato in varie fasi: la società effettua una proposta irrevocabile (ai sensi dell’articolo 1329 c.c.) a vantaggio dei beneficiari, conferendo a questi ultimi la possibilità di posticipare l’acquisto delle azioni alle condizioni predeterminate con l’offerta di acquisto.
I piani di azionariato hanno quindi l’intento di fidelizzare i dipendenti legando alcuni componenti della retribuzione all’andamento del titolo sul mercato; in tal modo i dipendenti stessi sono incentivati a migliorare l’efficienza e la redditività dell’azienda migliorandone i risultati gestionali.
 Infatti, se il valore dei titoli, in genere quotati nei mercati regolamentati, cresce nel periodo che va dal momento dell’offerta a quello dell’esercizio dell’opzione e quindi dell’acquisto delle azioni, il dipendente avrà il vantaggio di acquisire le azioni al prezzo originario, conseguendo così un reddito potenziale dato dalla differenza fra i due valori.

In relazione a tali diritti di opzione (in particolare quelli non cedibili) il legislatore fiscale, con l’articolo 48 (poi divenuto 51), comma 2, lettera g-bis), e comma 2-bis del Dpr n. 917/1986, prevedeva una normativa di favore, al ricorrere di determinate condizioni in presenza delle quali la tassazione del fringe benefit assegnato al dipendente era solo eventuale e, comunque, rinviata al momento dell’esercizio del diritto di opzione attribuito allo stesso.
In particolare, la lettera g-bis) prevedeva che, in sede di determinazione del reddito di lavoro dipendente, non concorreva alla formazione di tale categoria reddituale “la differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente, a condizione che il predetto ammontare sia almeno pari al valore delle azioni stesse alla data dell’offerta; se le partecipazioni, i titoli o i diritti posseduti dal dipendente rappresentano una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10 per cento, la predetta differenza concorre in ogni caso interamente a formare il reddito”.

L’articolo 36, comma 25 del Dl 223/2006, era poi intervenuto ad aggiungere altre condizioni, in mancanza delle quali la differenza costituiva comunque reddito di lavoro dipendente. Le azioni offerte, infatti, a seguito della modifica normativa, non dovevano essere cedute, né costituite in garanzia prima di cinque anni dall’assegnazione e il valore delle azioni assegnate non doveva essere complessivamente superiore, nel periodo di imposta, alla retribuzione lorda annua del dipendente relativa al periodo di imposta precedente. E’ intervenuto, infine, il Dl 112/2008, che ha eliminato il regime di favore prevedendo la tassazione integrale del fringe benefit.

L’abrogazione dell’agevolazione per le stock option ha riguardato non solo i “nuovi” piani, ma anche a quelli già deliberati per i quali, alla data di entrata in vigore dell’ultimo Dl (25 giugno 2008), le opzioni non fossero state ancora esercitate. L’agevolazione continuerà, pertanto, a produrre i propri effetti solo con riferimento ai diritti di opzione esercitati (“azioni già assegnate”) prima dell’entrata in vigore del provvedimento.

La pronuncia
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria.
In particolare, in materia di plusvalenze realizzate attraverso l'esercizio del diritto di opzione su stock option assegnate a lavoratori dipendenti dal proprio datore di lavoro, si sono succeduti diversi regimi. Un primo secondo cui l'assoggettabilità a tassazione delle plusvalenze relative alle stock option era legato al presupposto dell'esistenza di un "costo specifico" (articolo 48, comma 3, Tuir); un secondo con il quale veniva rimosso il presupposto del costo specifico e introdotto un diverso regime di tassazione delle plusvalenze (articolo 3, Dlgs 314/1997) e, infine, un terzo regime disposto dall’articolo 13 del Dlgs 505/1999, che ha nuovamente modificato l’articolo 48, lettere g) e g bis) del Tuir, nel senso sopra specificato.

Nel caso in esame, la Ctr non ha ritenuto applicabile alla plusvalenza realizzata dalla contribuente la disciplina di cui al Dlgs 505/1999, in quanto l’assegnazione del diritto di opzione è avvenuta nel 1997, con conseguente applicazione del primo regime. Secondo i giudici di merito, infatti, le situazioni giuridiche sorte prima del 1998 sarebbero state escluse dalla nuova disciplina.
In realtà, precisa la Cassazione, “al fine della corretta individuazione della disciplina applicabile è necessario distinguere i due momenti della assegnazione del diritto di opzione, da un lato, e quello di esercizio dello stesso e dunque dell'effettiva assegnazione dei rispettivi titoli, dall'altro. E' condivisibile l'analisi del ricorrente secondo cui le azioni entrano a far parte del patrimonio del dipendente nel momento in cui l'opzione verrà esercitata o ceduta, e che dunque la disciplina applicabile sarà quella vigente al momento di tale esercizio”.
Nel caso concreto l’opzione era stata offerta nel 1997, ma esercitata nel 2001.


Fonte: Agenzia Entrate

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