Con novità assoluta, la Corte di cassazione ha stabilito, nella sentenza 14298/2012, che è nullo il ravvedimento operoso Iva se il contribuente versa qualche euro in meno di interessi in quanto, in questo caso, non opera il principio di buona fede fra Amministrazione finanziaria e cittadino sancito dalla Statuto del contribuente.

Il fatto
Una società ha provveduto a effettuare il ravvedimento operoso di cui all’articolo 13 del Dlgs 472/1997, a fronte di un omesso versamento Iva, ma la validità della definizione scontata viene negata dal competente ente impositore in quanto era stato corrisposto un pagamento difettoso degli interessi, con la conseguenza che al contribuente era stato richiesto il pagamento dell’intero importo delle sanzioni, in pratica nella misura del 30%, oltre agli esatti interessi dovuti.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva l’opposizione della contribuente, mentre il giudice dell’appello, invertendo l’ordine della soccombenza, considerava che il ravvedimento operoso non si era perfezionato per non essere stato interamente versato l’ammontare della somma dovuta a titolo di interessi, né poteva trovare applicazione il principio di collaborazione e buona fede sancito dall’articolo 10, comma 1, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), proprio per l’inesatta corrispondenza degli interessi.

Nel conseguente ricorso per cassazione la società taccia la sentenza impugnata di violazione di legge, per avere il giudice di appello attribuito valore decisivo a una differenza minima di euro di interessi non versati, mentre invece avrebbe dovuto essere valorizzato, nel caso, il principio di leale collaborazione tra fisco e contribuente e di buona fede, atteso che l’articolo 10 dello Statuto non può essere derogato o modificato da leggi speciali. Tale principio, quindi, avrebbe dovuto escludere l’irrogazione della sanzione per l’intero.

La decisione
Non è così per la Corte di cassazione che, con la sentenza 14298/2012, ha rigettato il ricorso della contribuente, attribuendo valore decisivo anche a una “tenue somma” di pochi euro di interessi non corrisposta.
Il giudice di legittimità ha considerato che il ravvedimento operoso si perfeziona mediante l'integrale osservanza degli adempimenti imposti dall'articolo 13 del Dlgs 472/1997, quindi, con il contestuale pagamento delle maggiori imposte, delle sanzioni (sebbene nella misura ridotta) nonché degli interessi legali calcolati secondo la formula: I = C x R x N/365, dove C, il capitale, è l'imposta da versare, R è il saggio d'interesse legale, N i giorni di ritardo, che decorrono dalla scadenza del previsto adempimento al giorno del versamento, e 365 sono i giorni di cui è composto l'anno civile, anche nell'ipotesi di anno bisestile (risoluzione 296/2008). Ove, invece, il contribuente commetta un errore nella computazione della sanzione irrogabile, il ravvedimento non può ritenersi perfezionato, per cui è legittima la ripresa a tassazione delle sanzioni nella misura dovuta. Pertanto, il ravvedimento operoso spiega integralmente i suoi effetti se vengono adempiuti tutti gli obblighi imposti dalla legge ovvero il contestuale versamento del tributo, delle sanzioni nonché degli interessi legali.
L'omesso (o parziale) versamento dell'importo stabilito per la sanzione assurge a condizione invalidante l'efficacia del ravvedimento, con conseguente legittimità della ripresa nella misura disposta per legge (30%) della sanzione e degli integrali interessi dovuti sul tributo regolarizzato: questo principio era già stato assunto dalla Corte suprema (cfr Cassazione, sentenza 12661/2011) con riferimento alla computazione in misura inferiore delle sanzioni, ritenendo anche in quel caso il ravvedimento non perfezionato, per cui è legittima la richiesta della sanzione nella misura dovuta.
La pronuncia in esame, relativamente agli errori nel conteggio degli interessi, si allinea a questo orientamento, tracciandone la sincronica continuità, che così si va consolidando (cfr anche Cassazione, sentenza 14181/2012).

Peraltro, è anche da considerare che è stato ripetutamente affermato in sede di legittimità (cfr Cassazione, sentenze 8145/2011 e 8254/2009) che le norme dello Statuto del contribuente, emanate in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione e qualificate espressamente come principi generali dell'ordinamento tributario, sono, in alcuni casi, idonee a prescrivere specifici obblighi a carico dell'Amministrazione finanziaria e costituiscono, in quanto espressione di principi già immanenti nell'ordinamento, criteri guida per il giudice nell'interpretazione delle norme tributarie (anche anteriori), ma non hanno rango superiore rispetto alla legge ordinaria. Di conseguenza, non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse.


Fonte: Agenzia Entrate

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