L’intermediario fiscale che abbia presentato una dichiarazione infedele e, per tale ragione, sia stato condannato per truffa in sede penale, con sentenza definitiva, non libera il contribuente dal versamento dell’imposta dallo stesso dovuta, che dovrà essere comunque da questi versata, senza sanzioni ma con gli interessi.
Questo, in sintesi, il principio di diritto affermato dalla Cassazione nella sentenza 8630 del 30 maggio.

Il giudizio di merito
Un contribuente impugna una cartella di pagamento emessa, ai sensi dell’articolo 36-ter del Dpr 600/1973, a seguito del controllo formale della dichiarazione dei redditi (anno 2002), con la quale veniva chiesto il pagamento di somme a titolo di Irpef, addizionale e interessi, a fronte della rideterminazione degli oneri deducibili e delle spese.
Nel ricorso, il contribuente deduce di esser stato vittima della condotta truffaldina del proprio intermediario fiscale, che aveva inviato all’Agenzia delle Entrate una dichiarazione fiscale non veritiera, così come accertato dal giudice penale.

La Commissione tributaria di primo grado accoglie il ricorso con sentenza parzialmente riformata dai giudici di appello, che ritengono dovute le imposte sulla base del principio costituzionale di capacità contributiva, ma non dovuti gli interessi e le sanzioni, in base al principio contenuto nell’articolo 6, comma 3, del Dlgs 472/1997, secondo cui “il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”.

Il ricorso in Cassazione
Il contribuente impugna la sentenza in Cassazione con un ricorso articolato, mentre l’Amministrazione finanziaria propone ricorso incidentale.
In particolare, il ricorrente deduce:
la violazione e falsa applicazione dell’articolo 3 del Dpr 322/1998, nonché dei principi giuridici concernenti la natura e la funzione dell’intermediario fiscale, laddove i giudici di appello hanno ritenuto dovuta l’imposta nonostante la truffa ordita dall’intermediatore fiscale, tenuto conto della funzione attribuita allo stesso, da qualificarsi come ufficio di rilevanza pubblica che trascende il mero incarico professionale, e che comporta l’assunzione di responsabilità diretta nei confronti della stessa Amministrazione, con conseguente estromissione del soggetto passivo da ogni obbligo, relativo a imposta, interessi e sanzioni, inerente al rapporto fiscale
l’illegittimità della pretesa fiscale, in quanto addosserebbe al soggetto truffato gli effetti economici che derivano da un comportamento penalmente illecito realizzato da un soggetto obbligato a svolgere, con fedeltà e correttezza, i compiti allo stesso assegnati dal legislatore
di non conoscere il documento, frutto della condotta truffaldina dell’intermediario, che l’ufficio definiva “dichiarazione”, e di averlo implicitamente disconosciuto, con la conseguenza che i giudici di appello, in maniera erronea, non hanno respinto ogni pretesa fondata su quel presunto documento e sui controlli relativi, del tutto privi di ogni consistenza giuridica
la violazione e falsa applicazione dell’articolo 10 della legge 212/2000, che contiene le regole della trasparenza, della buona fede, della collaborazione e, soprattutto, dell’affidamento, che si applicano nel rapporto tra intermediario e soggetto passivo e che, se bene interpretate, escludono la persistenza di un obbligo tributario che discende da una condotta delittuosa altrui. Sulla base di tale assunto, quindi, si impone non solo l’inapplicabilità di sanzioni e interessi, ma, anche, l’inesigibilità della prestazione tributaria.
Invece, nel ricorso incidentale, l’Agenzia, nel dedurre, a sua volta, violazione e falsa applicazione del citato articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente e dell’articolo 5 del Dlgs 472/1997, ritiene erronea l’impugnata sentenza laddove ha ritenuto inesigibili, oltre alle sanzioni, anche gli interessi, in quanto l’assenza di un comportamento colposo, da parte del contribuente, può solo giustificare l’esclusione delle sanzioni, ma non incide sull’obbligo di corrispondere gli interessi, il cui pagamento è escluso – a norma del richiamato articolo 10 – nel caso, diverso da quello in esame, in cui sia stata la stessa Amministrazione, con i propri atti, a indurre in errore il contribuente.

La decisione della Corte suprema
La Cassazione rigetta il ricorso principale, accoglie quello incidentale e, nel merito, dichiara dovuti gli interessi.

Per quanto riguardo i primi due motivi, esaminati congiuntamente, l’infondatezza discende dal dettato dell’articolo 3 del Dpr 322/1998, nella versione in vigore ratione temporis, che considera obbligati a trasmettere le dichiarazioni in via telematica, se incaricati di predisporle, le figure professionali e i centri di assistenza fiscale elencati nelle lettere dalla a) alla e) del comma 3.
Tuttavia, la rilevanza di tale compito “…nei confronti del Fisco non vale, però, ad escludere la natura privatistica del rapporto tra l’intermediatore ed il contribuente, che si desume dall’esame delle disposizioni citate, in relazione sia all’an dell’incarico, che il contribuente è libero di non conferire (potendo, appunto, provvedere ‘direttamente’ alla presentazione delle dichiarazioni, in base all’art. 3, comma 2, in esame) che alla scelta del contraente, e non comporta, ad ogni modo, la dedotta ‘estromissione del soggetto passivo…da ogni obbligo inerente al rapporto fiscale’”.

La Cassazione ricorda, poi, che il sistema tributario nazionale disciplina un solo caso di “sostituzione” del soggetto passivo, definendo, all’articolo 64, comma 1, del Dpr 600/1973, il sostituto d’imposta come colui che “…in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto…”. Il caso in esame non rientra in tale ambito.

In altri termini, se è vero che l’intermediario è incaricato di trasmettere la dichiarazione che ha elaborato, non è certo obbligato, in proprio, a pagare l’imposta, tant’è che “…secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 24962 del 2010, n. 14033 del 2006 e sentenze richiamate), il sostituito deve ritenersi, fin dall’origine e non solo in fase di riscossione, obbligato solidale al pagamento dell’imposta, e perciò soggetto all’accertamento (fermo restando, in costanza dei relativi presupposti, il diritto di regresso verso il sostituto)”.
L’infedeltà del professionista, inoltre, non determina una novazione del rapporto nè muta i termini della questione in relazione all’obbligo relativo al pagamento dell’imposta in quanto “…la fonte di tale obbligo non va identificata nel comportamento penalmente illecito dell’intermediatore, come opina il contribuente, ma va, piuttosto, ricercata nella percezione di redditi da parte sua”, ossia dall’obbligo di ciascuno di concorrere alle spese pubbliche, in ragione della propria capacità contributiva, ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione.

In ordine alla terza doglianza, la Corte suprema precisa che l’obbligazione tributaria, a carico del contribuente, equivale all’ammontare – non contestato – risultante a seguito della eliminazione delle poste passive fittizie indicate nella dichiarazione dal fiscalista infedele.
Al riguardo, la Cassazione ribadisce che “…le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono atti negoziali o dispositivi, e non costituiscono titolo dell’obbligazione tributaria, ma costituiscono mere dichiarazioni di scienza, in linea di principio, liberamente emendabili o ritrattabili dal contribuente se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a suo carico (cfr. SU n. 14088 del 27 luglio 2004)”.

Con riferimento all’ultimo motivo del ricorso, i giudici di legittimità partono dal dettato dell’articolo 10, comma 2, della legge 212/2000, secondo cui “Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima…”.
In sostanza, la situazione di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria “…presuppone, dunque, tra l’altro, un’attività dell’Amministrazione stessa, in apparenza legittima e coerente, di segno favorevole al contribuente (cfr. Cass. n. 17576 del 2002, ord. n. 23309 del 2011)”.
Al riguardo, le attività di elaborazione e trasmissione delle dichiarazioni “…non valgono, come si è sopra esposto, ad annoverare l’intermediatore tra i pubblici amministratori, nè ad inquadrare il rapporto tra lo stesso ed il contribuente in ambito pubblicistico; inoltre, non risulta, affatto, che sia posta in essere alcuna attività nel senso appena specificato, ma, al contrario, consta che il contribuente è stato ingannato e che sono stati falsificati dichiarazioni e documenti di pagamento, come da accertamento penale irrevocabile…”.

Il caso in esame rientra, invece, nella fattispecie disciplinata dall’articolo 6, comma 3, del Dlgs 472/1997, che esclude la punibilità del contribuente, del sostituto e del responsabile d’imposta “…quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”.
Tale esimente, tuttavia, opera limitatamente alle sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, e non per gli interessi che “…costituiscono, in ogni caso, accessori del tributo (Cass. n. 23555 del 2006), e non hanno carattere sanzionatorio”.
Se è vero, infatti, che il professionista deve sempre osservare la diligenza richiesta dalla normativa e dalla disciplina deontologica della professione, pena la responsabilità civile nei confronti del cliente (Cassazione, sentenze 13254/2011 e 9916/2010), dall’altro, è pur vero che il destinatario degli obblighi in materia fiscale è sempre il contribuente, sicché la circostanza che questi deleghi gli adempimenti relativi a un altro soggetto non vale a esimerlo da responsabilità penale e fiscale (Cassazione, sentenza 1870/2012).


Fonte: Agenzia Entrate

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