Con la sentenza 28/07/2012 del 12 aprile, la Commissione tributaria regionale di Trieste, accogliendo le doglianze dell’ufficio, ha confermato la legittimità degli atti di accertamento da questo emessi, volti a recuperare a tassazione le maggiori imposte sottratte dalla contribuente, concessionaria di automobili, per effetto del suo coinvolgimento in un meccanismo di “frode carosello”.
In particolare, la pronuncia del Collegio di merito presenta profili di interesse nella parte in cui ha ritenuto non sufficiente la sola dimostrazione dell’avvenuta assoluzione in sede penale, ravvisando, invece, la necessità di fornire una prova contraria tale da vincere le presunzioni “gravi, precise e concordanti” poste a supporto della pretesa dell’Amministrazione.

Il fatto
Con separati ricorsi, la società coinvolta aveva impugnato in primo grado gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate sul presupposto che la contribuente, operante nel commercio di automobili nuove e usate, aveva effettuato degli acquisti di autovetture – poi rivendute – all’interno del meccanismo noto come “frode carosello”, che l’aveva vista come soggetto finale. In particolare, aveva sottofatturato i beni oggetto della truffa, nell’ambito di una più ampia frode Iva perpetrata da società “cartiere”, utilizzando in modo illegittimo il “regime del margine” previsto agli articoli 36 e seguenti Dl 41/1995.
La società, infatti, presentava alla Motorizzazione civile, per conto dei clienti, tutta la documentazione necessaria per l’immatricolazione di autovetture nuove o a km zero, provenienti da paesi comunitari, con allegata dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante l’avvenuto assolvimento degli obblighi Iva sull’acquisto intracomunitario del veicolo.
L’ufficio accertava, peraltro, che tali acquisti di veicoli erano stati effettuati a monte da aziende sfornite dell’organizzazione e della struttura necessaria allo svolgimento reale di tale tipo di attività, esistenti al solo scopo di fornire la documentazione cartacea necessaria.

La contribuente impugnava, quindi, i richiamati atti contestando l’operato dell’ufficio in quanto, a suo dire, la pretesa erariale risultava fondata su una catena di presunzioni non dotate di requisiti di gravità, precisione e concordanza.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva i suddetti ricorsi, imputando all’ufficio il fatto di non essere riuscito a provare il coinvolgimento della società nella truffa.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva appello, rilevando la mancanza di motivazione della pronuncia nella parte in cui veniva ribaltato sull’ufficio l’onere di provare circostanze già dimostrate con presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Per contro, la difesa della contribuente ribadiva le ragioni già favorevolmente accolte dai primi giudici e, in particolare, chiedeva la conferma della sentenza impugnata sulla base della pronuncia emessa dal Tribunale penale con la quale, per gli stessi episodi al centro del procedimento tributario, era stata assolta.

La pronuncia
Con la sentenza del 12 aprile 2012, il Collegio d’appello ha, contrariamente a quanto invocato dalla parte, accolto il gravame dell’ufficio proprio sulla base della sentenza irrevocabile intervenuta in sede penale.
A parere della Ctr, infatti, la contribuente avrebbe fondato gran parte delle sue ragioni proprio invocando l’intervenuto proscioglimento. Tuttavia, da un’attenta lettura della sentenza, è emerso che l’assoluzione del legale rappresentante della società è intervenuta perché il fatto non ha costituito reato: il giudice penale ha, infatti, indicato chiaramente l’esistenza di elementi oggettivi diretti a dimostrare la sussistenza della cosiddetta frode carosello, con intervento di società cartiere e illegittima applicazione del regime del margine.

Trattandosi di delitto, è mancata, nel caso in questione, la prova sulla consapevolezza dell’imputato dell’inesistenza soggettiva delle operazioni commerciali, in ragione delle quali aveva acquistato il bene, sebbene la materialità dei fatti delittuosi non sia stata messa in discussione.

Poiché, infatti, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi, nel giudizio tributario, alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, anche se i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento (cfr Cassazione, sentenza 3724/2010), il giudice tributario, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, deve, in ogni caso, verificare la rilevanza del giudicato extratributario nell’ambito specifico in cui esso è destinato a operare.

Ebbene, nel caso concreto, la Ctr ha ritenuto non trascurabile la circostanza, emersa in sede penale, che tutti gli elementi propri del tipo di frode messa in atto (esistenza di società cartiere, mancato versamento dell’Iva e illegittima utilizzazione dell’istituto del margine) siano stati, in effetti, ritenuti sussistenti e neppure puntualmente contestati dal contribuente, che ha soltanto reclamato la sua estraneità alla commissione del reato, pur risultando alla fine uno dei beneficiari dell’operazione.

Con riguardo alla normativa fiscale applicabile al caso, va ricordato, infatti, che il comma 4 dell’articolo 38 del Dl 331/1993 precisa, per quanto riguarda gli autoveicoli “usati”, che tali si devono considerare quelli che non hanno percorso più di seimila chilometri e che sono stati ceduti decorsi 6 mesi dalla data del provvedimento di prima immatricolazione o di iscrizione nei pubblici registri o di altri provvedimenti equipollenti.
Si tratta di condizioni entrambe essenziali, le quali devono però essere messe in relazione a quelle poste dallo speciale regime del margine vigente per i rivenditori di beni usati, di cui al Dl 41/1995, il quale, all’articolo 37, comma 2, dispone espressamente che “gli acquisti dei beni di cui all’art. 36, assoggettati al regime ivi previsto nello Stato membro dì provenienza, non sono considerati acquisti intracomunitari”.

Come previsto dalla circolare 40/2003, la normativa nazionale in materia di regime del margine, in aderenza a quanto previsto dalla settima direttiva Ce, ha come scopo quello di evitare una doppia imposizione su beni usati, il cui acquisto, da parte del rivenditore, avviene sulla base di un prezzo già comprensivo di Iva, che non è possibile detrarre in quanto non autonomamente evidenziata.
La successiva commercializzazione degli autoveicoli usati va, quindi, effettuata con l’applicazione dell’Iva secondo il particolare sistema del margine, solo quando il rivenditore, soggetto d’imposta in Italia, li ha acquistati da un privato consumatore, da un operatore economico che non ha potuto esercitare il diritto a detrazione, da un soggetto passivo d’imposta comunitario in regime di franchigia nel proprio Stato membro, da un soggetto passivo (nazionale o comunitario) che ha applicato, a sua volta, il suddetto regime del margine.
In assenza di tali presupposti per l’operatività del particolare beneficio, la cessione di autoveicoli d’occasione sconta, dunque, l’imposta nei modi ordinari.

Di conseguenza, contrariamente a quanto invocato dalla società ricorrente, affinchè le cessioni di veicoli vengano assoggettate a Iva sul margine di profitto, non è sufficiente che il loro oggetto sia rappresentato da mezzi “usati”, occorrendo per contro verificare caso per caso la sussistenza, in capo al beneficiario, dei requisiti prescritti dalla normativa speciale.

Anche recentemente, con sentenza 10414/2011, la Corte di cassazione ha, in tema di Iva, ricordato che, nel caso di apparente regolarità contabile delle fatture, qualora l’Amministrazione intenda contestare il coinvolgimento di un contribuente in una “frode carosello” – fondata sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro – è tenuta a dimostrare il meccanismo fraudolento e, in secondo luogo, la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente, però, con prova certa e incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purchè dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza, consistenti nell’esposizione di elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente e, qualora fornisca tale prova, grava sul contribuente l’onere di dimostrare il contrario.

Per questi motivi, la Commissione triestina ha reputato non sufficiente, per la società, la mera invocazione della sentenza penale a lei favorevole per assenza dell’elemento soggettivo, ritenendo, invece, come la prova contraria da parte della contribuente, in qualità di imprenditore operante nel settore del commercio di autovetture e mediamente esperto, dovesse emergere in maniera più rigorosa, in modo da superare le presunzioni gravi, precise e concordanti fornite dall’ufficio nei propri atti accertativi.


Fonte: Agenzia Entrate

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